oriente a 360° – I 47 RONIN
Articolo a cura di dario55
I 47 RONIN
Le avventure dei quarantasette Rônin non sono una leggenda, ma un fatto storico che l’immaginazione popolare si è dilettata ad abbellire. Gli Annali del Giappone riportano gli episodi essenziali di questi tragici avvenimenti e la morte degli eroi il 14 febbraio 1702.
Le famiglie mostrano le reliquie dei loro gloriosi antenati.
Innumerevoli pellegrini visitano giorno dopo giorno le sacre tombe, schierate attorno al monumento funebre del principe di En-ya – il loro daimyo.
(dalla “Introduzione” a: George Soulié de Morant, La storia dei 47 Ronin, Milano, Luni editrice, 2002)
All’inizio del diciottesimo secolo viveva un daimyo di nome Asano Takumi no Kami, signore del castello di Akô, nella provincia di Harima. Accade un giorno che un ambasciatore imperiale della corte del Mikado fu mandato dallo Shogun a Yedo. Per questo motivo Takumi no Kami e un altro nobile di nome Kamei Sama furono designati per accoglierlo e partecipare alla festa; un alto ufficiale di nome Kira Kôtsuké no Suké fu incaricato di insegnare loro il cerimoniale adeguato da osservare per l’occasione. I due nobili furono quindi costretti a recarsi ogni giorno a palazzo per ascoltare gli insegnamenti di Kôtsuké no Suké. Ma costui era un uomo avido e quando si accorse che i doni che i due daimyo, secondo le usanze tradizionali, gli avevano recato in cambio dei suoi insegnamenti erano modesti e vili, si sentì ribollire di odio e non si preoccupò più di insegnare le cose giuste, cercando invece di farli diventare due zimbelli. Takumi no Kami, trattenuto da un rigido senso del dovere, sopportò con pazienza quegli insulti, ma Kamei Sama, che non sapeva controllarsi, s’infuriò moltissimo e decise di uccidere Kôtsuké no Suké.
Una sera, dopo aver portato a termine i propri incarichi a palazzo, Kamei Sama fece ritorno al proprio palazzo e, convocati i consiglieri a un abboccamento segreto, disse loro:
«Kôtsuké no Suké ha insultato Takumi no Kami e me durante il servizio presso l’inviato imperiale. Questo supera ogni decenza e sopportazione, quindi ho avuto l’impulso di ucciderlo sul posto. Ma ho pensato che se avessi fatto una cosa simile nei recinti del palazzo, non solo avrei perso la vita, ma la mia famiglia e i miei servitori sarebbero andati in rovina. Per questo ho trattenuto la mia mano. Ma è una disgrazia per l’umanità che un simile infame continui a vivere, per cui domani, mentre mi recherò a corte, lo ucciderò: ormai ho deciso e non ascolterò obiezioni».
Mentre parlava, il suo viso era diventato livido di rabbia.
Bisogna sapere che uno dei consiglieri di Kamei Sama era un uomo di grande saggezza e quando si accorse dall’atteggiamento del suo signore che qualunque protesta sarebbe stata inutile, disse:
«Le parole di vostra signoria sono legge; il vostro servo preparerà tutto in ossequio ad esse, e se domani, quando vostra signoria si recherà a corte, questo Kôtsuké no Suké si permetterà di essere di nuovo insolente, che muoia per vostra mano».
A Kamei Sama queste parole piacquero e attese con impazienza lo spuntare del giorno, quando avrebbe potuto fare ritorno a corte e uccidere il suo nemico.
Ma il consigliere tornò a casa molto inquieto e pensò con preoccupazione alle parole del suo signore. Dopo aver riflettuto, gli venne fatto di pensare che Kôtsuké no Suké godeva fama di essere avido, quindi sarebbe stato certamente disposto a farsi corrompere, e sarebbe stato meglio sborsare una somma, non importa di quale entità, piuttosto che il suo signore e l’intera sua casa andassero in rovina. Mise dunque insieme tutto il denaro che possedeva, lo diede da portare a un servitore e si recò di corsa nella notte al palazzo di Kôtsuké no Suké. Qui giunto, disse agli uomini del seguito:
«Il mio padrone, attualmente al seguito dell’inviato imperiale, è molto riconoscente al mio signore Kôtsuké no Suké, che con grande impegno e dedizione gli ha insegnato il cerimoniale adatto da osservare durante l’accoglienza dell’inviato imperiale. Tramite me ha inviato questo; non è che un meschino dono, ma egli spera che sua signoria avrà la compiacenza di accettarlo e si raccomanda alla benevolenza di sua signoria».
E con queste parole presentò mille once di argento per Kôtsuké no Suké e altre mille da distribuire tra gli uomini del seguito.
Quando costoro videro il denaro, i loro occhi brillarono di piacere e si profusero in ringraziamenti; dissero al consigliere di aspettare un momento e andarono a riferire al padrone del ricco dono che era stato recato insieme a un cortese messaggio di Kamei Sama. Kôtsuké no Suké, al colmo della gioia, fece accompagnare il consigliere in una stanza interna e, dopo averlo ringraziato, diede la sua parola che in futuro avrebbe insegnato con la massima cura a Kamei Sama tutti i minimi dettagli dell’etichetta. Il consigliere, vedendo la contentezza di quell’uomo avido, si rallegrò che il suo piano avesse avuto successo e, chiesto il permesso di congedarsi, tornò a casa perfettamente soddisfatto.
Ma Kamei Sama, del tutto all’oscuro del modo in cui il consigliere aveva ottenuto il favore del suo nemico, continuava a covare i suoi propositi di vendetta e la mattina seguente, allo spuntare del giorno, si recò a corte in processione solenne.
Quando Kôtsuké no Suké lo incontrò, i suoi modi erano completamente cambiati e nessuno avrebbe potuto essere più gentile di lui.
«Mio onorato Kamei, mio signore», disse, «siete giunto a corte molto presto questa mattina. Non ci sono parole che possano esprimere la mia ammirazione per il vostro zelo. Quest’oggi desidero avere l’onore di richiamare la vostra attenzione su alcuni dettagli dell’etichetta. Devo pregare vostra signoria di perdonarmi per il modo in cui mi sono comportato nei giorni precedenti. Devo esservi sembrato estremamente scortese. Purtroppo il mio carattere è molto scorbutico, per cui vi prego di capirmi e di dimenticare quanto è accaduto».
Man mano che Kôtsuké no Suké si umiliava e pronunciava parole gentili, il cuore di Kamei Sama si addolciva, finché abbandonò il proposito di ucciderlo. E così, grazie all’intelligenza del suo consigliere, Kamei Sama e la sua casa furono salvati dalla rovina.
Poco dopo Takumi no Kami, che non aveva inviato doni, giunse al palazzo e Kôtsuké no Suké lo mise in ridicolo ancor più di prima, provocandolo con risatine di scherno e subissandolo d’insulti. Ma Takumi no Kami fingeva di ignorare tutto ciò e sopportava con pazienza i comandi di Kôtsuké no Suké.
Questo comportamento, ben lungi dal sortire un buon risultato, rese Kôtsuké no Suké ancora più sprezzante nei suoi confronti, tanto che alla fine disse altezzosamente:
«Allora, signore di Takumi, il nastro del mio sandalo si è slacciato: siate così gentile da allacciarmelo».
Takumi no Kami, pur ribollendo di rabbia a questo affronto, continuò a pensare che il suo dovere lo costringeva ad obbedire e legò il nastro del sandalo. Allora Kôtsuké no Suké, voltandosi verso di lui, disse con impazienza:
«Quanto sei maldestro! Non sei nemmeno capace di allacciare il nastro di un sandalo come si deve! Chiunque si accorgerebbe che sei un bifolco che non sa un bel niente dei modi di Yedo!»
E con una risata di scherno si girò in direzione di una stanza interna.
Ma la pazienza di Takumi no Kami era arrivata al limite: quest’ultimo insulto era più di quanto potesse sopportare.
«Fermati un attimo, signor mio!», esclamò.
«Ebbene, che c’è?», rispose l’altro.
E non appena si voltò, Takumi no Kami estrasse il pugnale e lo colpì alla testa. Ma Kôtsuké no Suké indossava il copricapo di corte che lo protesse, per cui la ferita fu solo un graffio. Corse via. Takumi no Kami, mentre lo inseguiva, tentò nuovamente di colpirlo, ma mancò il bersaglio, e il pugnale colpì una colonna.
In quel momento un ufficiale di nome Kajikawa Yosobei, vedendo quanto stava accadendo, accorse e, trattenendo il nobile infuriato, diede a Kôtsuké no Suké il tempo sufficiente per mettersi in salvo.
Tutto questo aveva creato molto rumore e scompiglio. Takumi no Kami fu arrestato e disarmato e confinato in uno degli appartamenti del palazzo sotto la sorveglianza dei censori. Fu convocato un tribunale e il prigioniero fu dato in custodia a un daimyo di nome Tamura Ukiyô no Daibu, che lo tenne sotto stretta sorveglianza nella propria casa con sommo rammarico per la moglie e la gente del seguito. Quando il consiglio prese la sua decisione, deliberò che, dal momento che Takumi no Kami aveva commesso un atto oltraggioso aggredendo un altro uomo all’interno dei recinti del palazzo, avrebbe dovuto fare hara-kiri, cioè suicidarsi sventrandosi; i suoi beni dovevano essere confiscati e la sua famiglia andare in rovina. La legge era questa. E così Takumi no Kami fece hara-kiri, il suo palazzo di Akô fu confiscato e alcuni degli uomini del suo seguito, essendo diventati Rônin, passarono al servizio di altri daimyo, mentre altri divennero mercanti.
Tra questi uomini del seguito c’era anche il consigliere capo, un uomo di nome Oishi Kuranosuké, che con altri quarantasei fedeli servitori formò un’alleanza per vendicare la morte del padrone uccidendo Kôtsuké no Suké.
Oishi Kuranosuké non era presente al palazzo di Akô nel momento di quella lite che, se fosse stato accanto al suo principe, non sarebbe mai accaduta. Infatti lui, che era un uomo saggio, non avrebbe mancato d’ingraziarsi Kôtsuké no Suké inviandogli doni convenienti, mentre il consigliere che serviva il principe a Yedo era un uomo sciocco che aveva trascurato questa precauzione e così aveva provocato la rovina del padrone e della sua casa.
E così Oishi Kuranosuké e i suoi quarantasei compagni cominciarono a mettere a punto progetti di vendetta contro Kôtsuké no Suké. Ma quest’ultimo era così ben sorvegliato da un drappello di guardie fornite da un daimyo di nome Uyésugi Sama, la cui figlia aveva sposato Kôtsuké no Suké, che l’unico modo di raggiungere lo scopo sarebbe stato quello di sottrarre il nemico alla sorveglianza delle guardie.
Con questo obiettivo si separarono e si travestirono, alcuni da muratori o artigiani, altri da mercanti, mentre il loro capo, Kuranosuké, andò a Kiôto, e costruì una casa nel quartiere Yamashina, dove cominciò a frequentare case malfamate e si diede all’alcol e alla depravazione, mentre nella sua mente non c’era posto che per la vendetta.
Nel frattempo Kôtsuké no Suké, sospettando che gli uomini che avevano fatto parte del seguito di Takumi no Kami avrebbero tramato contro la sua vita, mandò segretamente delle spie a Kiôto e mise insieme un gruppo di persone fidate che tenessero d’occhio tutto quello che faceva Kuranosuké. Ma quest’ultimo, assolutamente deciso a far credere al nemico di essere ormai al sicuro, continuò a condurre una vita dissoluta insieme a prostitute e alcolizzati.
Un giorno, mentre stava ritornando a casa ubriaco da uno dei posti che frequentava nei bassifondi, cadde lungo la strada e si addormentò, mentre i passanti lo oltrepassavano deridendolo.
Accadde allora che un uomo di Satsuma lo vide e disse:
«Ma quello non è Oishi Kuranosuké, che un tempo era consigliere di Asano Takumi no Kami e che, mancandogli il coraggio di vendicare il suo padrone, si è dato alle donne e al vino? Guardalo, quell’animale infedele! Ubriaco per strada, vigliacco e rammollito. Indegno di portare il nome di samurai!»
E così dicendo calpestò Kuranosuké che dormiva e gli sputò in faccia. Ma quando le spie riferirono questo fatto allo Yedo, questi ne fu molto sollevato e si sentì al sicuro da ogni pericolo.
Un giorno la moglie di Kuranosuké, molto amareggiata nel vedere il marito condurre quella vita dissoluta, andò da lui e gli disse:
«Mio signore, all’inizio mi hai detto che la tua dissolutezza era solo un trucco per costringere il tuo nemico ad abbassare la guardia. Ma ora le cose sono andate troppo avanti. Ti prego e t’imploro di importi un freno».
«Non mi seccare», rispose Kuranosuké, «non ho voglia di ascoltare i tuoi piagnistei. Visto che il mio modo di vivere non ti piace, divorzierò da te, così potrai fare il tuo comodo, e io comprerò una bella ragazza da una casa di piacere e la sposerò per farci quello che mi pare. Sono stufo di veder girare per casa una vecchia come te, quindi vattene. Prima te ne andrai, meglio sarà».
Mentre parlava così, diventava sempre più furente, tanto che la moglie, in preda al terrore, lo implorava di avere pietà di lei:
«O mio signore, ritira, ti prego, queste tremende parole! Sono stata la tua sposa fedele per vent’anni e ti ho dato tre figli. Nella malattia e nella sofferenza sono stata con te. Adesso non puoi essere tanto crudele da cacciarmi di casa. Abbi pietà di me!»
«Smettila con queste suppliche inutili. Ormai ho deciso, e devi andartene. E quanto ai bambini, è meglio che te li porti via con te».
Quando la donna udì il marito parlare così, nella sua afflizione chiamò il figlio maggiore, Oishi Chikara, e gli chiese di supplicare per lei e di implorare per il suo perdono. Ma nulla avrebbe potuto dissuadere Kuranosuké dalla sua decisione. E così la moglie se ne andò con i due figli minori e fece ritorno al paese natale, mentre Oishi Chikara restò con il padre.
Le spie non mancarono di comunicare tutta la faccenda a Kôtsuké no Suké, e questi, non appena venne a sapere che Kuranosuké aveva cacciato via la moglie e i figli e aveva accolto in casa una concubina e si abbrutiva tra l’alcol e i vizi, cominciò a pensare di non aver più nulla da temere dagli uomini del seguito di Takumi no Kami e che costoro erano sicuramente dei codardi senza il coraggio di vendicare il loro padrone. Così un po’ alla volta cominciò ad abbassare la guardia e congedò la metà degli uomini che il suocero, Uyésugi Sama, gli aveva mandato per proteggerlo. È facile capire che stava cadendo nella trappola preparatagli da Kuranosuké il quale, pur di raggiungere lo scopo di uccidere il nemico del suo padrone, non aveva esitato a divorziare dalla moglie e a cacciare di casa i figli.
In questo modo Kuranosuké continuava a gettare polvere negli occhi del suo nemico. Perseverava nel suo comportamento apparentemente dissoluto, mentre tutti gli altri congiurati vennero a Yedo e riuscirono a entrare nella casa di Kôtsuké no Suké grazie alle loro capacità di operai e venditori ambulanti. Impararono la topografia della casa e l’ubicazione delle varie stanze, capirono il carattere di chi ci viveva, sia degli uomini fedeli e coraggiosi, sia dei vigliacchi. E su tutto questo mandavano regolari rapporti a Kuranosuké.
E quando finalmente fu chiaro da quelle lettere che a Yedo Kôtsuké no Suké non aveva più guardie del corpo, Kuranosuké si rallegrò, perché il giorno della vendetta era a portata di mano. Fissò quindi un luogo d’incontro a Yedo, dove si recò in segreto eludendo la sorveglianza delle spie nemiche. E così i quarantasette uomini, ora che il loro piano stava funzionando, aspettarono con pazienza.
Era pieno inverno, il dodicesimo mese dell’anno, e il freddo era quasi insopportabile. Una sera, durante una forte nevicata, mentre il silenzio avvolgeva tutto il mondo e le persone pacifiche dormivano sulle loro stuoie, i Rônin decisero che non ci sarebbe stata occasione migliore per mettere in pratica le loro decisioni. Tennero dunque consiglio e decisero di dividersi in due gruppi. Il primo, guidato da Oishi Kuranosuké, doveva sferrare l’attacco contro il cancello principale, l’altro, guidato dal figlio Oishi Chikara, avrebbe attaccato il retro della casa di Kôtsuké no Suké. Ma dal momento che Chikara aveva solo sedici anni, fu deciso che Yoshida Chiuzayémon lo avrebbe accompagnato. Decisero poi che quando Kuranosuké avesse dato ordine di suonare un tamburo, quello sarebbe stato il segnale dell’attacco combinato e che colui che avesse ucciso Kôtsuké no Suké e gli avesse tagliato la testa avrebbe dovuto fischiare per dare il segnale ai compagni di affrettarsi e di identificare la testa, per poi portarla al tempio chiamato Sengakuji e lasciarla in offerta davanti alla tomba del loro signore. Poi avrebbero dovuto segnalare l’omicidio al governo e attendere la sentenza di morte che certamente sarebbe stata pronunciata contro di loro. Su tutto questo i Rônin fecero solenne promessa. L’ora fissata era mezzanotte, e i quarantasette compagni, dopo aver preparato tutto per l’assalto, tennero una festa d’addio, perché il giorno dopo avrebbero potuto essere tutti morti.
Oishi Kuranosuké si rivolse agli altri e disse:
«Stanotte attaccheremo il nostro nemico nel suo palazzo. I servitori faranno certamente resistenza, e saremo costretti a ucciderli. Tuttavia, uccidere vecchi, donne e bambini è una cosa terribile, per cui prego ciascuno di voi di evitare con la massima attenzione di uccidere persone indifese».
I suoi compagni applaudirono queste parole, e tutti restarono in attesa della mezzanotte.
Quando giunse l’ora concordata, i Rônin si radunarono. Il vento urlava furioso e sbatteva la neve sulle loro facce. Ma a loro importava ben poco che il vento o la neve si mettessero sulla loro strada: quello che cercavano era la vendetta. Infine raggiunsero la casa di Kôtsuké no Suké e, come concordato, si divisero in due gruppi. Chikara, con ventitré uomini, andò al cancello posteriore. Poi quattro uomini, servendosi di una scala di corda che appesero al tetto del portico, penetrarono nel cortile e, quando furono sicuri che quelli di casa erano addormentati, andarono fino al corpo di guardia, dove le guardie stavano dormendo, e prima che avessero il tempo di riprendersi dalla sorpresa, le catturarono e le legarono. Le guardie terrorizzate supplicavano di aver pietà di loro e di aver salva la vita; i Rônin acconsentirono a condizione che fossero consegnate loro le chiavi del cancello, ma le guardie risposero tremando che le chiavi erano conservate nella casa di uno degli ufficiali, e che non c’era modo d’impadronirsene. Allora i Rônin persero la pazienza e con un martello ridussero in pezzi il grosso chiavistello di legno che chiudeva il cancello, e le porte si aprirono scorrendo verso destra e verso sinistra. Nello stesso momento Chikara con i suoi facevano irruzione dal cancello posteriore.
Poi Oishi Kuranosuké inviò un messaggero a portare alle case vicine questo messaggio:
«Noi, i Rônin che un tempo eravamo al servizio di Asano Takumi no Kami, questa notte stiamo penetrando nel palazzo di Kôtsuké no Suké per vendicare il nostro padrone. Dal momento che non siamo né banditi né gente violenta, non danneggeremo in alcun modo le case vicine. Vi preghiamo di non aver paura».
E dal momento che i vicini odiavano Kôtsuké no Suké per la sua avidità, non mossero un dito per unire le loro forze e andare ad aiutarlo.
Fu presa anche un’altra precauzione. Affinché nessuno del seguito corresse a chiamare in soccorso parenti e amici, e questi non arrivassero in forze e non interferissero con il piano dei Rônin, Kuranosuké collocò dieci dei suoi uomini armati di archi sul tetto ai quattro lati del cortile, con l’ordine di colpire tutti coloro che avessero tentato di allontanarsi dal palazzo. Essendo così pronti tutti i suoi piani e gli uomini appostati, Kuranosuké con un tamburo diede personalmente il segnale dell’attacco.
Dieci uomini del seguito di Kôtsuké no Suké, udendo il rumore, si svegliarono e, sguainate le spade, corsero davanti alla camera del padrone per difenderlo. In quell’istante i Rônin, che avevano fatto irruzione spalancando la porta, entrarono nella stessa stanza. Si accese allora tra i due gruppi un furioso combattimento, nel bel mezzo del quale Chikara, che aveva condotto i suoi uomini attraverso il giardino, irruppe nel retro della casa, mentre Kôtsuké no Suké, temendo per la sua vita, si rifugiò con la moglie e le cameriere in uno stanzino sulla veranda, mentre il resto dei suoi, che dormiva negli edifici fuori della casa, si teneva pronto ad accorrere per salvarlo. Ma i Rônin che erano entrati dalla porta principale e stavano combattendo con i dieci uomini del seguito finirono per avere la meglio e li uccisero tutti senza perdere neppure un uomo, dopodiché, aprendosi la strada verso le stanze posteriori, si unirono a Chikara e ai suoi formando un unico gruppo compatto.
Nel frattempo gli uomini superstiti di Kôtsuké no Suké erano arrivati, e la battaglia diventò generale. Kuranosuké, seduto su una sedia da campo, impartiva direttamente gli ordini ai Rônin. Ben presto gli altri abitanti della casa si accorsero che non potevano tener testa ai nemici, cosicché tentarono di far conoscere la loro situazione a Uyésugi Sama, suocero del loro padrone, esortandolo ad affrettarsi in loro soccorso con tutti gli uomini di cui disponeva. Ma i messaggeri furono abbattuti dagli arcieri che Kuranosuké aveva fatto appostare sul tetto. E così, persa ogni speranza, alla gente di casa non restò che battersi con disperazione. Allora Kuranosuké gridò:
«L’unico nostro nemico è Kôtsuké no Suké! Mandate dentro qualcuno e fatelo portare fuori, vivo o morto!»
Ora davanti alla stanza privata di Kôtsuké no Suké c’erano tre valorosi uomini del seguito con le spade sguainate. Il primo era Kobayashi Héhachi, il secondo Waku Handaiyu e il terzo Shimidzu Ikkaku, tutti uomini d’onore ed esperti nell’arte del maneggiare la spada. Questi uomini combatterono con tanto accanimento contro tutti i Rônin, che a un certo momento riuscirono a ricacciarli indietro.
Quando Oishi Kuranosuké vide tutto questo, digrignò i denti dalla rabbia e incitò i suoi gridando:
«Come? Avete tutti giurato di lottare fino alla morte per vendicare il vostro signore e adesso vi fate respingere da tre uomini? Siete solo dei codardi! Morire lottando per il proprio padrone è la più nobile aspirazione per i suoi uomini!»
Poi, rivolgendosi al figlio Chikara, disse:
«Coraggio, ragazzo! Attacca quegli uomini, e se sono più forti di te, muori!»
Spronato da queste parole, Chikara afferrò una lancia e diede battaglia a Waku Handaiyu, ma non riuscì a resistere e, indietreggiando a poco a poco, fu spinto fuori nel giardino, dove perse l’equilibrio e scivolò in uno stagno. Ma mentre Handaiyu, deciso ad ucciderlo, scrutava nello stagno, Chikara colpì le gambe del nemico facendolo cadere, poi nuotò fuori dell’acqua e lo uccise.
Nel frattempo Kobayashi Héhachi e Shimidzu Ikkaku erano stati uccisi dagli altri Rônin, e di tutti i combattenti di Kôtsuké no Suké nessuno più continuava a lottare. Chikara, vedendo tutto questo, si diresse verso stanza posteriore con la spada insanguinata in mano per scovare Kôtsuké no Suké, ma trovò soltanto il figlio, un giovane signore di nome Kira Sahioyé che, sollevata una pesante lancia, si lanciò all’attacco, ma rimase subito ferito e si diede alla fuga. Poiché tutti gli uomini di Kôtsuké no Suké erano stati uccisi, la battaglia ebbe fine, ma fino a quel momento non si era trovata traccia di Kôtsuké no Suké.
Allora Kuranosuké divise gli uomini in squadre, e si misero a cercare per tutta la casa, ma senza esito: tutto quello che trovavano erano donne e bambini in lacrime.
Davanti a questo i quarantasette uomini cominciarono a piombare nello sconforto, perché a dispetto di tutte le loro fatiche si erano lasciati sfuggire il nemico, e la loro disperazione arrivò a un punto tale, che decisero di suicidarsi sul posto. Ma poi decisero di fare un altro tentativo.
Allora Kuranosuké andò nella camera da letto di Kôtsuké no Suké e, toccando la coperta con le mani, esclamò:
«Le coperte sono ancora calde: il nostro nemico non dev’essere lontano! Si è sicuramente nascosto da qualche parte in casa!»
Esaltati da ciò i Rônin ripresero a cercare. Ebbene, nella parte sopraelevata della stanza, vicino al posto d’onore, era appeso un dipinto; quando lo tolsero, videro che c’era una larga apertura nella parete intonacata e che, quando si infilava una lancia in questa apertura, si sentiva che all’interno era vuota. Allora uno dei Rônin, di nome Yazama Jiutarô, s’introdusse nell’apertura e scoprì che dalla parte opposta c’era un piccolo cortile in cui si trovava un capanno per il carbone e la legna da ardere. Guardando nel capanno scorse qualcosa di bianco sul fondo. Sferrò un colpo con la sua lancia, quando due uomini armati gli saltarono addosso e cercarono di ucciderlo, ma lui indietreggiò, finché uno dei suoi compagni accorse e uccise uno dei due uomini, attaccando l’altro, mentre Jiutarô entrava nel capanno saggiando il cammino con la lancia. Vedendo di nuovo qualcosa di bianco, lo colpì con la lancia, ed ecco che un acuto grido di dolore rivelò che si trattava di un uomo che balzò fuori. L’uomo vestito di bianco, che era stato ferito alla coscia, estrasse un pugnale e cercò di colpire Jiutarô. Ma questi glielo strappò e, afferratolo per la collana, lo trascinò fuori del capanno.
A questo punto arrivarono gli altri Rônin ed esaminarono con attenzione il prigioniero: videro che si trattava di un uomo di nobile aspetto, all’incirca sessantenne, vestito con un pigiama bianco macchiato dal sangue della ferita inflittagli da Jiutarô. Gli uomini si persuasero che non poteva trattarsi che di Kôtsuké no Suké e gli chiesero come si chiamava, ma non ricevendo risposta, fischiarono come convenuto, e tutti i compagni accorsero alla chiamata. Allora Oishi Kuranosuké, tenendo in mano una lanterna, esaminò i lineamenti del vecchio, che si rivelò essere proprio Kôtsuké no Suké, e se mai ci fosse stato bisogno di altre prove, aveva ancora una cicatrice sulla fronte, dove Asano Takumi no Kami lo aveva ferito durante la lotta avvenuta a palazzo. Quindi non c’erano dubbi. Oishi Kuranosuké s’inginocchiò davanti a lui e gli domandò con il massimo rispetto:
«Mio signore, siamo gli uomini del seguito di Asano Takumi no Kami. L’anno scorso vostra signoria e il nostro padrone hanno litigato a palazzo, il nostro padrone è stato condannato al hara-kiri, e la sua famiglia è andata in rovina. Stanotte siamo venuti per vendicarlo, com’è dovere di uomini fedeli e leali. Prego ora vostra signoria di acconsentire che la giustizia faccia il suo corso. Ora, mio signore, vi supplichiamo di fare hara-kiri. Io stesso avrò l’onore di assisterla e, quando con ogni umiltà, avrò ricevuto la testa di vostra signoria, sarà il mio massimo onore presentarla in offerta sulla tomba di Asano Takumi no Kami».
E così, nel rispetto dell’alto grado di Kôtsuké no Suké, i Rônin lo trattarono con la più grande cortesia e lo implorarono più volte di fare hara-kiri. Ma lui si rannicchiava su se stesso tremando. Infine Kuranosuké, vedendo che era inutile esortarlo a morire con nobiltà, lo trascinò a terra e gli tagliò la testa con lo stesso pugnale con cui Asano Takumi no Kami si era suicidato. Poi i quarantasette compagni, soddisfatti per essere riusciti a portare a termine il loro piano, misero la testa in un secchio e si apprestarono ad andarsene. Ma prima di riuscire ad abbandonare la casa di cui avevano causato la rovina, spensero con cura tutte le luci e i fuochi in modo che il fuoco non potesse incidentalmente appiccarsi alle case circostanti e i vicini non subissero alcun danno.
Mentre stavano procedendo in direzione di Takanawa, il quartiere in cui si trovava il tempio di nome Sengakuji, spuntò il giorno, e la gente uscì in massa per vedere quei quarantasette uomini che, con gli abiti e le braccia macchiate di sangue, avevano un orribile aspetto. E tutti li lodarono e ammirarono il loro valore e fedeltà. Essi tuttavia aspettavano continuamente che il suocero di Kôtsuké no Suké li attaccasse e si portasse via la testa, per cui aspettavano coraggiosamente la morte con le spade in mano. Ciononostante arrivarono senza problemi a Takanawa, poiché Matsudaira Aki no Kami, uno dei diciotto daimyo più potenti del Giappone, nella cui casa Asano Takumi no Kami aveva fatto il tirocinio militare, era stato molto contento di ascoltare quanto era accaduto quella notte ed era pronto ad accorrere in aiuto dei Rônin se fossero stati attaccati. Quindi il suocero di Kôtsuké no Suké non ebbe il coraggio di inseguirli.
Intorno alle sette del mattino arrivarono di fronte al palazzo di Matsudaira Mutsu no Kami, principe di Sendai. Il principe li ascoltò e mandò a chiamare uno dei suoi consiglieri, al quale disse:
«Gli uomini del seguito di Takumi no Kami hanno ucciso il nemico del loro padrone e sono arrivati fin qui. Non ho parole per lodare la loro devozione. Credo che siano stanchi e affamati dopo tutto quello che hanno fatto stanotte, per cui ho intenzione di invitarli a entrare e di offrire loro del cibo e una coppa di vino».
Allora il consigliere uscì e disse a Oishi Kuranosuké:
«Mio signore, sono un consigliere del principe di Sendai. Il mio padrone mi ha detto che certo sarete sfiniti dopo quello che avete fatto. Entrate dunque e gradite il misero ristoro che possiamo offrirvi. Questo mi manda a dirvi il mio signore».
«Vi ringrazio, signore», rispose Kuranosuké. «È una grande grazia di sua signoria disturbarsi per noi. Accettiamo con gratitudine la sua gentilezza».
Così i quarantasette Rônin entrarono nel palazzo e furono festeggiati con cibi e vino, mentre tutta la gente del seguito del principe di Sendai veniva a onorarli.
Poi Kuranosuké si rivolse al consigliere e disse:
«Mio signore, siamo grandemente in debito con voi per la vostra cortese ospitalità, ma dal momento che abbiamo fretta di raggiungere Sengakuji, siamo costretti a chiedervi umilmente il permesso di congedarci».
E dopo essersi nuovamente profusi in ringraziamenti verso il loro ospite, lasciarono il palazzo di Sendai e si affrettarono verso Sengakuji, dove furono accolti dal sacerdote del monastero che li aspettava dinanzi al cancello per riceverli e li guidò alla tomba di Takumi no Kami.
Quando giunsero al sepolcro del loro padrone, presero la testa di Kôtsuké no Suké e dopo averla lavata accuratamente in un pozzo, la presentarono in offerta davanti alla tomba. Appena ebbero fatto ciò, incaricarono il sacerdote del tempio di pregare mentre bruciavano incenso. Dapprima Oishi Kuranosuké bruciò dell’incenso, poi fu la volta del figlio Oishi Chikara, e dopo di loro gli altri quarantacinque celebrarono la stessa cerimonia. Infine Kuranosuké, dando al sacerdote tutto il denaro che aveva, disse:
«Quando noi quarantasette avremo fatto hara-kiri, ti prego di seppellirci in maniera onorevole. Conto sulla tua gentilezza. Non ho che questa miseria da offrirti, usala per onorare le nostre anime!»
E il sacerdote, ammirato per il fedele coraggio di quegli uomini, s’impegnò con le lacrime agli occhi a esaudire i loro desideri. E così i quarantasette Rônin attesero pazientemente con l’anima in pace i comandi delle autorità.
Infine fu convocata la Suprema Corte in cui si riunirono i governanti di Yedo e i censori pubblici. La sentenza che emisero diceva:
«Poiché, senza rispettare la dignità della città e senza temere il governo, vi siete uniti per uccidere il vostro nemico, siete penetrati nottetempo con violenza nella casa di Kira Kôtsuké no Suké e lo avete assassinato, questa Corte sentenzia che per la vostra temeraria condotta dovrete fare hara-kiri».
Dopo la lettura della sentenza, i quarantasette Rônin furono divisi in quattro gruppi e affidati alla custodia di quattro diversi daimyo. Ai loro palazzi furono mandati dei funzionari alla cui presenza i Rônin avrebbero dovuto fare hara-kiri. Ma dal momento che fin da quando tutto era incominciato avevano avuto la consapevolezza che sarebbero andati incontro a questa fine, affrontarono la morte con nobiltà. I corpi furono trasportati a Sengakuji e seppelliti di fronte alla tomba del loro padrone, Asano Takumi no Kami. E quando la loro fama si diffuse, la gente si radunò in preghiera presso le tombe di quegli uomini fedeli.
Tra quelli che vennero a pregare c’era un uomo di Satsuma che, inchinandosi davanti alla tomba di Oishi Kuranosuké, disse:
«Quando ti ho visto giacere ubriaco al bordo della strada di Yamashina, a Kiôto, non ho capito che stavi complottando per vendicare il tuo signore e credendo che tu fossi un uomo infedele, ti ho calpestato e ti ho sputato in faccia mentre passavo. Ora sono venuto a chiederti perdono e a espiare l’offesa che ti ho recato l’anno scorso».
Con queste parole s’inchinò nuovamente davanti alla tomba, ed estratto un pugnale dalla cintura se lo conficcò nel ventre e morì. Il capo dei sacerdoti del tempio, impietosito, lo seppellì a fianco dei Rônin, e la sua tomba si può ancora vedere insieme a quelle dei quarantasette compagni.
Così finisce la storia dei quarantasette Rônin.
FINE