Leggende Orientali – LA FORCINA D’ORO
Leggenda dal Giappone
Tradotta da Dario55
LA FORCINA D’ORO
A Sendai, città dell’estremo nord da dove provenivano i migliori soldati giapponesi, viveva un samurai di nome Hasunuma.
Hasunuma era ricco e aveva il senso dell’ospitalità. Inoltre pensava molto e i suoi pensieri lo portavano a decisioni buone e sagge. Un giorno sua moglie si presentò a lui con una bella bambina, la loro prima figlia, che si chiamava Ko, che significa “piccola”. Non era un vero e proprio nome, sarebbe come se noi chiamassimo una bambina “Mariuccia”, cioè “piccola Maria”, o “Robertina”, cioè “piccola Roberta”. Il vero nome di quella bambina era “Hasu-ko”, che significa “Piccolo Giglio”, ma la chiameremo “Ko”, “Piccola” per brevità.
Quel giorno stesso Saito, uno degli amici di Hasunuma, che era anche Samurai, fu favorito dalla sorte ed ebbe un figlio. I genitori decisero che, in quanto vecchi amici, i figli si sarebbero sposati fra loro, quando avessero raggiunto l’età del matrimonio. Entrambi furono soddisfatti dell’idea, e lo furono anche le due madri.
Per rendere più stretto il loro legame, Saito consegnò a Hasunuma una forcina d’oro che era appartenuta da molto tempo alla famiglia, e disse:
«Mio vecchio e buon amico, prendi questa forcina. È una promessa di matrimonio di mio figlio, che si chiamerà Kōnojō, per la tua figlioletta Ko, che adesso hanno entrambi due settimane. Possano trascorrere insieme una vita lunga e felice».
Hasunuma prese la forcina e la porse alla moglie perché la conservasse. Poi bevvero del saké per propiziarsi la buona sorte e per brindare alla sposa e a quelle nozze che si sarebbero celebrate dopo quasi vent’anni.
Alcuni mesi dopo Saito, per qualche motivo, cadde in disgrazia presso il suo signore e, licenziato dal servizio, lasciò Sendai con la famiglia senza che nessuno lo sapesse.
Diciassette anni dopo O Ko San era, con una sola eccezione, la più bella ragazza di tutta Sendai; l’eccezione era sua sorella O Kei, di appena un anno più giovane.
Molti aspiravano alla mano di O Ko, ma lei non volle saperne di nessuno di loro e rimase fedele all’impegno che il padre aveva preso a nome suo quando era bambina. A dire il vero, non aveva mai visto il promesso sposo, e (cosa ancora più strana) né lei né la sua famiglia avevano più avuto notizia della famiglia di Saito da quando avevano lasciato Sendai più di sedici anni prima; ma non c’era ragione al mondo per cui lei, una ragazza giapponese, rompesse la promessa del padre, e così O Ko San rimase fedele al suo amato sconosciuto, malgrado soffrisse molto per il fatto di non vederlo. Tanta era la sua sofferenza, che si ammalò e tre mesi dopo morì, tra il cordoglio di tutti coloro che la conoscevano e la pena infinita della sua famiglia.
Il giorno del funerale di O Ko San la madre prestò al cadavere le ultime consuete cure. Aveva i capelli adornati con la forcina d’oro che Saito le aveva dato come pegno per il figlio Kōnojō. Quando il corpo fu nella bara, mise la forcina tra i capelli della ragazza e disse:
«Amatissima figlia, questa è la forcina che il tuo promesso, Kōnojō, ti ha lasciato per suo ricordo. Sia essa un pegno che leghi i vostri spiriti nella morte, così come avrebbero dovuto essere legati in vita; e che tu possa godere una felicità senza fine, questo è il mio voto e il mio desiderio».
Così pregando, la madre di O Ko pensava che anche Kōnojō doveva ormai essere morto e che i loro spiriti si sarebbero incontrati. Ma così non era, poiché due mesi dopo questi fatti lo stesso Kōnojō, ormai diciottenne, giunse a Sendai e per prima cosa fece visita al vecchio amico di suo padre Hasunuma.
«Oh, quanta amarezza e disperazione», disse quest’ultimo. «Solo due mesi fa mia figlia Ko è morta. Se tu fossi arrivato prima, forse sarebbe ancora viva. Ma non hai mai mandato un messaggio, non abbiamo più sentito parlare di tuo padre e di tua madre. Che avete fatto dopo che siete andati via di qui? Raccontami tutta la storia».
«Mio signore», rispose l’afflitto Kōnojō «quanto mi dici della morte di tua figlia che speravo di sposare, getta il mio cuore nella disperazione, perché come lei sono rimasto fedele e ho sperato tanto di sposarla e non passava giorno senza che pensassi a lei. Quando mio padre portò via la famiglia da Sendai, ci condusse a Yedo, e poi procedemmo verso nord fino all’isola di Yezo, dove mio padre perse tutto il suo patrimonio e diventò povero. Morì in povertà, e la mia compianta madre non riuscì a sopravvivergli. Ho lavorato duramente per guadagnare abbastanza da sposare tua figlia Ko, ma non ho potuto far altro che pagarmi il viaggio di ritorno fino a Sendai. Mi sono sentito in dovere di venire e di raccontarti le disgrazie mie e della mia famiglia».
Il vecchio samurai fu molto commosso da questo racconto e capì che il più sfortunato di tutti era stato proprio Kōnojō.
«Kōnojō», disse, «spesso ho pensato e mi sono chiesto se eri un uomo d’onore oppure no. Ora so che sei stato fedele e hai mantenuto la promessa di tuo padre. Ma avresti dovuto scrivere, avresti dovuto scrivere! Poiché non lo hai fatto, a volte mia moglie e io abbiamo pensato che fossi morto, ma abbiamo tenuto questo pensiero dentro di noi e non ne abbiamo mai parlato con Ko San. Vai al nostro Butsudan [tempio di famiglia], apri le porte e brucia un bastoncino profumato sulla sua tomba. Sarà gradito al suo spirito. Ha desiderato ardentemente il tuo ritorno ed è morta per questo desiderio, per il suo amore per te. Il suo spirito sarà felice di sapere che sei tornato per lei».
Kōnojō fece come gli era stato detto.
S’inchinò rispettosamente tre volte davanti alla tomba di O Ko San, mormorò alcune parole di preghiera per lei, poi accese un bastoncino d’incenso e lo mise davanti alla tomba.
Dopo questa manifestazione di sincero affetto, Hasunuma disse al giovane che lo avrebbe considerato suo figlio adottivo e che avrebbe dovuto vivere con lui. Avrebbe abitato nella piccola casa che si trovava nel giardino. In ogni caso, quali che fossero i suoi progetti per il futuro, al momento avrebbe dovuto rimanere con loro. Era un’offerta generosa, degna di un samurai. Kōnojō accettò con gratitudine e diventò un membro della famiglia. Un paio di settimane più tardi si stabilì nella piccola casa all’estremità del giardino.
Quel giorno Hasunuma, la moglie e la loro seconda figlia, O Kei, per ordine del Daimio si erano recati all’Higan, una cerimonia religiosa che aveva luogo a marzo e a settembre; e anche Hasunuma rese onore alle tombe dei suoi antenati. Sul far della sera erano di ritorno nei rispettivi palanchini. Kōnojō si mise presso il cancello per assistere al loro passaggio, come esigeva la cortesia e il rispetto. Passò per primo il vecchio samurai, seguito dal palanchino di sua moglie, poi da quello di O Kei. Quando quest’ultimo attraversò il cancello, a Kōnojō parve di sentir cadere qualcosa che produsse un suono metallico. Dopo che il palanchino fu passato, lo raccolse senza prestarvi particolare attenzione.
Era la forcina d’oro, ma naturalmente, anche se il padre glie ne aveva parlato, Kōnojō non aveva idea che si trattasse proprio di quella, per cui non poté pensare altro che dovesse appartenere a O Kei San. Tornò alla sua piccola casa, la chiuse per la notte e stava per ritirarsi, quando udì bussare alla porta.
«Chi è là?», gridò. «Che volete?»
Nessuna risposta. Kōnojō si mise a letto, pensando di essersi sbagliato.
Ma ecco un altro colpo alla porta, più forte del primo. Kōnojō saltò fuori dal letto e accese la lampada.
«Se non è una volpe o un tasso», pensò, «deve trattarsi di uno spirito maligno che viene a disturbarmi».
Aprendo la porta con la lampada in una mano e un bastone nell’altra, Kōnojō guardò fuori nell’oscurità e qui, con suo grande stupore, gli apparve una visione di bellezza femminile quale mai aveva visto prima.
«Chi sei e che cosa vuoi?», chiese.
«Sono O Kei San, la sorella minore di O Ko», rispose la visione. «Anche se non mi hai mai visto, io ti ho visto tante volte e mi sono così innamorata di te, che non posso pensare ad altro che a te. Quando stasera al nostro ritorno hai raccolto la mia forcina d’oro, è stato perché l’ho fatta cadere per avere una scusa per venire a bussare alla tua porta. In cambio tu devi amarmi, altrimenti morirò!»
Questa dichiarazione infuocata e immorale scandalizzò il povero Kōnojō. Inoltre sapeva che avrebbe commesso una terribile ingiustizia nei confronti del suo gentile ospite Hasunuma, se avesse accolto sua figlia a quell’ora della notte e avesse fatto l’amore con lei, e glie lo disse con energia e decisione.
«Se non mi amerai come io amo te, mi vendicherò», disse O Kei, «e dirò a mio padre che mi hai fatta venire qui per far l’amore con te e che poi mi hai oltraggiata».
Povero Kōnojō! Proprio un gran brutto pasticcio! La sua paura peggiore era che la ragazza facesse quello che aveva detto, che il samurai le avesse creduto e che l’avrebbe trattato alla stregua di una persona ignobile e spregevole. Perciò acconsentì alle richieste della ragazza. Notte dopo notte lei gli faceva visita, finché trascorse un mese. In questo periodo in Kōnojō era nato un amore ardente per la bella O Kei. Parlando con lei una sera le disse:
«Mia adorata O Kei, non mi piace questo amore segreto che c’è tra noi. Non è meglio che ce ne andiamo di qui? Se chiedessi a tuo padre la tua mano, rifiuterebbe, perché ero promesso a tua sorella».
«Sì», rispose O Kei, «hai ragione, anch’io ci stavo pensando. Lasciamo questo posto stanotte stessa e andiamo a Ishinomaki, il luogo dove mi hai detto che vive un fedele servitore di tuo padre di nome Kinzo».
«Sì, Kinzo è il suo nome e il luogo è Ishinomaki. Partiamo il più presto possibile».
Infilarono un po’ di vestiti in una sacca, partirono in segreto e a tempo debito arrivarono a destinazione. Kinzo fu lieto di accoglierli e di dar prova di tutta la sua ospitalità al figlio del suo ultimo padrone e a quella bella signora.
Vissero felicemente insieme per un anno, poi un giorno O Kei disse:
«Penso che ora dovremmo tornare dai miei genitori. All’inizio saranno stati arrabbiati con noi, ma poi avranno pensato che sia successo qualcosa di terribile. Non abbiamo mai scritto. Col passare del tempo saranno stati sempre più in pena per me. Sì, dobbiamo tornare».
Kōnojō fu d’accordo. Già da un po’ si era reso conto del torto che stava facendo a Hasunuma.
Il giorno dopo tornarono a Sendai, e Kōnojō si sentiva molto agitato nell’avvicinarsi alla casa del samurai. Si fermarono presso il cancello esterno, e O Kei disse a Kōnojō:
«Penso sia meglio che tu vada e ti presenti a mio padre e mia madre. Se si mostreranno molto adirati, mostra loro questa forcina d’oro».
Kōnojō si fece coraggio, si diresse verso la porta e chiese udienza con il samurai.
Prima che il servitore facesse in tempo a ritornare, Kōnojō udì il vecchio esclamare:
«Kōnojō San! Ma certo! Fallo subito entrare!», e lui stesso andò a dargli il benvenuto.
«Mio caro ragazzo», disse il samurai, «sono veramente lieto di rivederti. Mi è molto dispiaciuto che tu non abbia trovato abbastanza gradevole vivere con noi. Avresti potuto dirmi che te ne saresti andato. Ma credo che tu abbia preso da tuo padre in queste cose e abbia preferito sparire misteriosamente. Comunque, bentornato!»
Kōnojō fu sbalordito da queste parole e rispose:
«Mio signore, sono tornato per chiederti perdono della mia colpa».
«Quale colpa hai commesso?» chiese il samurai molto sorpreso alzandosi in atteggiamento di grande dignità.
Allora Kōnojō gli fece un resoconto completo della sua storia con O Kei. Raccontò tutto dall’inizio alla fine, e man mano che procedeva, il samurai dava segni d’impazienza.
«Non scherzare, ragazzo! Mia figlia O Kei San non è cosa su cui scherzare e mentire! È come morta da più di un anno, così malata che siamo riusciti a malapena a nutrirla forzandole un po’ di cibo in bocca. E come se non bastasse, non ha più detto una parola né dato segni di vita!»
«Non sto mentendo né scherzando», disse Kōnojō. «Se esci, troverai O Kei nel palanchino in cui l’ho appena lasciata».
Un servitore fu subito mandato a vedere, e al ritorno affermò che al cancello non c’erano né palanchini né persone.
Kōnojō, vedendo che il samurai cominciava a mostrarsi contrariato e arrabbiato, estrasse dai vestiti la forcina d’oro e disse:
«Guarda! Se dubiti di me e pensi che stia mentendo, questa è la forcina che O Kei mi ha dato perché te la portassi».
«Bik-ku-ri-shi-ta!» esclamò la madre di O Kei. «Come è arrivata questa forcina nelle tue mani? L’ho messa personalmente nella bara di Ko San poco prima che fosse chiusa».
Il samurai e Kōnojō si guardarono tra loro, poi si voltarono a guardare la madre. Nessuno sapeva cosa pensare o cosa dire. Immaginatevi la sorpresa generale quando O Kei entrò nella stanza dopo essersi alzata dal letto come se non fosse mai stata malata. Era il ritratto della salute e della bellezza.
«Com’è possibile questo?», chiese il samurai quasi gridando. «Com’è possibile, O Kei, che ti sia alzata dal letto vestita, con i capelli acconciati e un aspetto come se non fossi stata malata neanche un attimo?»
«Non sono O Kei», fu la risposta, «ma lo spirito di O Ko. Grande è stata la mia disgrazia nel morire prima del ritorno di Kōnojō San, poiché se fossi vissuta fino a quel momento, sarei guarita e mi sarei sposata con lui. Così invece il mio spirito era infelice. Allora ho assunto le sembianze della mia adorata sorella O Kei e per un anno ho vissuto felice nel suo corpo insieme a Kōnojō. Ora finalmente il mio spirito è soddisfatto, e posso riposare in pace».
«Ma c’è ancora una cosa che devo fare, Kōnojō», disse la ragazza rivolgendosi a lui. «Tu dovrai sposare mia sorella O Kei. Se lo farai, il mio spirito riposerà veramente in pace, e O Kei riacquisterà la forza e la salute. Mi prometti che sposerai O Kei?»
Il vecchio samurai, la moglie e Kōnojō furono sbalorditi di tutto questo. L’aspetto della ragazza era quello di O Kei, ma la voce e gli atteggiamenti erano quelli di O Ko. Inoltre la forcina d’oro era una prova in più. La madre lo sapeva bene: lei stessa l’aveva infilata fra i capelli di Ko poco prima che la bara fosse chiusa. Di questo era assolutamente certa.
«Ma», disse infine il samurai, «O Ko è morta ed è stata seppellita più di un anno fa. La tua apparizione è quantomeno sconcertante per tutti noi. Per quale motivo ci dai queste pene?»
«Ve l’ho già spiegato», riprese la ragazza. «Il mio spirito non avrebbe potuto riposare in pace fino a quando non avessi vissuto con Kōnojō, che sapevo essermi fedele. Ora questo è compiuto, e posso avere la mia pace. Il mio solo desiderio è quello di vedere Kōnojō sposare mia sorella».
Hasunuma, la moglie e Kōnojō si consultarono. I due erano ormai pronti alle nozze di O Kei, e Kōnojō non aveva obiezioni.
Dal momento che tutto era sistemato, la ragazza fantasma tese la mano a Kōnojō e disse:
«Questa è l’ultima volta che tocchi la mano di O Ko. Addio, miei adorati genitori! Addio a tutti voi!»
Poi diventò sempre più debole e sembrò morta, e così rimase per circa mezz’ora, mentre gli altri, sopraffatti dalle cose strane e misteriose a cui avevano assistito, stavano seduti intorno a lei senza dire una parola.
Dopo mezz’ora il corpo tornò alla vita e, alzandosi in piedi, disse:
«Miei cari genitori, non abbiate più paura per me. Mi sento di nuovo perfettamente bene, ma non riesco a capire come ho fatto a uscire dalla mia stanza vestita e acconciata così, né perché mi sento tanto bene».
Le furono poste molte domande, ma ben presto fu chiaro che O Kei non sapeva nulla di quanto era accaduto, né dello spirito di O Ko San o della forcina d’oro.
Una settimana dopo lei e Kōnojō si sposarono, e la forcina d’oro fu offerta al tempio di Shiogama, dove fino a non molto tempo fa la gente si recava in preghiera e venerazione.
FINE