leggende – LA GRU RICONOSCENTE
Leggenda dal Giappone
Tradotta da Dario55
LA GRU RICONESCENTE
“I passeri combattivi non temono l’uomo”, come dice il vecchio proverbio. Eppure non era stato un passero a cadere dal cielo, ma una gru. Giaceva vicino ai piedi di Musai, il figlio di una contadina, mentre questi camminava nella melma della sua risaia, lavorando dall’alba al tramonto.
Il giovane era abituato alle gru, perché questi uccelli dalle lunghe zampe camminavano dietro di lui nel solco dell’aratro sulla terraferma, per niente spaventati di trovarsi nei domini del Mikado. Perché chi avrebbe fatto del male alla creatura dal petto bianco, che tutti chiamavano l’Onorevole Signora Gru? Quegli aggraziati uccelli sembravano gradire la vicinanza al giovane, quando questi lavorava tra i solchi, dove sotto quattro pollici d’acqua venivano piantati i semi e crescevano le piante di riso. I movimenti delle gru sono così aggraziati, che molte piccole e delicate ragazze, che si comportano con educazione e grazia, si sentono definire “l’uccello che si alza dall’acqua senza infangare il ruscello”.
Musai si precipitò verso la sponda erbosa ai margini della risaia guadando il più velocemente possibile il fango melmoso per vedere cos’era accaduto alla gru. Buttò a terra la zappa e guardando nell’erba vide che nel dorso della gru era conficcata una freccia e che gocce rosse di sangue macchiano il piumaggio bianco. Invece di mostrarsi spaventato mentre il giovane si avvicinava, l’uccello piegò il collo, come per sottomettersi a tutto ciò che il contadino avesse fatto.
Delicatamente Musai estrasse la freccia e aiutò l’uccello ad alzarsi, spingendo da parte le piante del sottobosco, in modo che le sue grandi penne bianche potessero muoversi liberamente. Dopo alcuni deboli tentativi di volare, la gru spiegò le ali, si alzò da terra e, dopo aver girato più volte intorno al suo benefattore come per ringraziarlo, volò via verso la montagna.
Musai tornò al lavoro, sperando che la sua fatica avrebbe dato un buon raccolto. Aveva la madre vedova da mantenere e doveva lavorare duramente ogni giorno. La sua unica gioia era tornare a casa, sfinito dopo le lunghe ore di lavoro nella risaia fangosa, e fare un bagno caldo. Sua madre lo teneva sempre pronto per lui. Poi, pulito e con un kimono fresco, e un po’ di riposo prima di cena, era pronto per una serata tranquilla con i vicini.
Così i giorni passavano tutti uguali uno dopo l’altro fino a quando arrivò l’autunno. Un giorno, tornando prima del tramonto, trovò una bella ragazza seduta accanto alla madre. Nonostante il suo aspetto deplorevole dopo una giornata di duro lavoro a piedi nudi nel fango, lei lo accolse con la grazia di una principessa.
Non volendo ricambiare il saluto coperto di fango com’era, si tolse il fazzoletto dalla testa, trasse un respiro e inchinandosi alla madre chiese:
«Chi è l’onorevole fanciulla che siede al tuo fianco e perché è entrata in questa miserabile capanna?»
«Figlio mio», rispose la madre, «anche se sei un uomo, non hai ancora una moglie. Le tue virtù di obbedienza, rispetto filiale, fedeltà e cortesia ti hanno fatto conoscere. Per questo questa bella damigella non è restia a diventare tua moglie. Ma senza il tuo consenso, non posso rispondere alla sua proposta. Cosa ne pensi?»
Il giovane contadino, anche se molto compiaciuto, non disse nulla, ma rifletté seriamente:
“È una donna allevata con raffinatezza, e forse di nobili natali: se dovessi acconsentire al suo desiderio, come potrebbe sopportare la povertà a cui noi siamo abituati? Sarà paziente, quando dovrà soffrire la fame? Oppure ci separeremo, e la promessa di amore e felicità durerà solo poco di tempo, per poi morire, lasciando dietro di sé tristezza e dolore?”
Ma mentre i giorni scivolavano via, e quando vide quanto era gentile con la sua nuova madre, sempre paziente e piena di abnegazione e amorevole riverenza, tutte le sue paure svanirono come nuvole davanti al vento. E così il giovane e la donna si sposarono.
Ma quando arrivò il pieno autunno, le spighe di riso non diedero altro raccolto che gusci vuoti e pula. Il raccolto fu disastroso. Con pesanti tasse da pagare e senza cibo in casa la fame incombeva su di loro. In inverno erano in grave difficoltà.
Poi la moglie paziente rivelò nuovi poteri e risollevò il morale del marito, dicendo:
«Posso tessere la stoffa come mai è stato fatto in questa provincia, purché mi costruiate una stanza separata. Non posso tessere qui, né creare il bel disegno di rosso e bianco, se non sono sola e in perfetto silenzio. Costruitemi una stanza, e arriverà il denaro di cui abbiamo bisogno».
La vecchia madre era dubbiosa sul progetto della nuora, e anche Musai non era del tutto convinto. Nonostante questo si mise alacremente al lavoro. Con travi, canne e paglia, stuoie come pavimento e finestre di carta con tralicci, pareti strette perché intonacate di argilla, costruì la stanza separata. Lì, sola, giorno dopo giorno, appartata da tutti, la dolce moglie lavorava alacremente senza essere vista. La madre e il marito aspettarono pazientemente, finché, dopo una settimana, la donna si ricongiunse alla piccola cerchia familiare. Tra le mani portava un rotolo di stoffa intessuta, bianca e lucente, brillante e pura come la neve appena caduta. Qua e là un filo cremisi nel tessuto non faceva altro che intensificare la purezza di quel biancore immacolato. Il rosso puro e il bianco puro erano gli unici colori di quel meraviglioso tessuto.
«Come lo chiameremo?», chiese il marito stupito.
«Non ha un nome, perché non ce n’è un altro al mondo come questo», rispose la bella tessitrice.
«Ma deve avere un nome. Lo porterò al Daimio. Non lo comprerà, se non sa come si chiama».
«Allora», disse la moglie, «digli che il suo nome è “Tela di piume della Gru Bianca”».
Il tessuto di neve passò rapidamente nelle mani del signore del castello, che lo inviò come regalo all’imperatrice a Kioto. Tutti ne furono stupiti, e l’Imperatrice ordinò che il donatore fosse riccamente ricompensato. Il contadino, con mille monete nella borsa, si affrettò a casa per stendere ai piedi della madre l’argento brillante e ringraziare la moglie che gli aveva portato fortuna. Seguì una festa, e per molte settimane la famiglia visse tranquillamente con i soldi così guadagnati. Poi, nuovamente pressato dal bisogno, Musai chiese alla moglie se fosse disposta a tessere un’altra della meravigliosa ““Tela di piume della Gru Bianca”.
Lei acconsentì lietamente, ammonendolo a lasciarla da sola e a non guardarla finché non fosse uscita con il tessuto.
Ma accidenti allo spirito d’impertinenza indiscreta e di cattiva curiosità! Non contento di essere stato liberato dalla fame da una moglie che lo serviva come uno schiavo, Musai si arrampicò furtivamente sul divisorio di carta, infilò un dito senza far rumore nel pannello, facendo così un buco rotondo al quale incollò l’occhio e guardò dentro.
Che spettacolo! Non c’era una donna al lavoro, ma una nobile gru bianca, la stessa che aveva visto nel campo e dalla cui schiena aveva estratto la freccia del cacciatore. Piegandosi sul telaio, l’uccello estraeva dal suo stesso petto il filo setoso e torcendolo ripetutamente lo trasformava nel filo più sottile che i mortali abbiano mai visto. Di tanto in tanto faceva uscire dal suo cuore gocce di sangue rosso con cui tingeva alcuni fili, e così la tessitura continuava. La tela era quasi finita.
Musai sbalordito guardava senza muoversi, finché chiamato improvvisamente dalla madre, gridò in risposta: «Sì, sto arrivando».
La gru spaventata si girò e vide l’occhio nel pannello. Gettando filo e tessuto si mosse con rabbia verso la porta, emise un urlo stridulo e volò fuori sotto il cielo. Come una macchiolina bianca contro le colline azzurre, apparve per un po’ di tempo e poi scomparve alla vista.
Madre e figlio si trovarono di nuovo in povertà e solitudine, e Musai fu nuovamente costretto a sguazzare a gambe nude nel fango della risaia.
NOTE
Testo originale