leggende orientali – LA VENDETTA DI KAZUMA
Leggenda dal Giappone
Tradotta da Dario55
LA VENDETTA DI KAZUMA
Circa duecentocinquanta anni fa Ikéda Kunaishôyu era signore della provincia di Inaba. Nel suo seguito c’erano due gentiluomini di nome Watanabé Yukiyé e Kawai Matazayémon, uniti tra loro da forti legami di amicizia, che spesso facevano visita l’uno a casa dell’altro. Un giorno Yukiyé era seduto conversando con Matazayémon a casa di quest’ultimo, quando improvvisamente gli saltò agli occhi una spada che si trovava nella parte sopraelevata della stanza. Non appena la vide, iniziò a dire:
«Dimmi, per favore, come sei venuto in possesso di quella spada?»
«Come ben sai, quando il mio signore Ikéda seguì il mio signore Tokugawa Iyéyasu per combattere a Nagakudé, mio padre lo seguì, e fu durante la battaglia di Nagakudé che prese quella spada».
«Anche mio padre partecipò e fu ucciso durane la battaglia, e questa spada, che era un cimelio della nostra famiglia da molte generazioni, andò perduta in quell’occasione. Dato che per me ha un grande valore, vorrei che tu, se non hai per lei un particolare apprezzamento, mi faccia la grande gentilezza di restituirmela».
«Non c’è alcuna difficoltà, non è altro che un atto dovuto da parte di un amico verso un altro amico. Prendila pure».
A queste parole Yukiyé con gratitudine perse la spada e, portatala a casa, la ripose con cura.
All’inizio dell’anno seguente Matazayémon si ammalò e morì, e Yukiyé, profondamente triste per la perdita del suo buon amico e desideroso di ricambiare il favore ricevuto con la spada del padre, fece molti atti di gentilezza verso il figlio del morto, un giovane di ventidue anni di nome Matagorô.
Ora questo Matagorô era un mascalzone dal cuore vile, che aveva invidiato quella spada che suo padre aveva dato a Yukiyé e si lamentava spesso e in pubblico del fatto che Yukiyé non aveva mai ricambiato il dono; e così Yukiyé acquistò nel palazzo del suo signore la nomea di uomo avaro e poco generoso.
Ora Yukiyé aveva un figlio di nome Kazuma, un ragazzo di sedici anni, che serviva come paggio del principe. Una sera, mentre stava passeggiando insieme agli altri paggi, uno di essi disse:
«Matagorô va dicendo a tutti che tuo padre ha accettato una splendida spada dal suo e non ha mai ricambiato il dono, e la gente sta cominciando a spettegolare».
L’altro replicò:
«Mio padre ha ricevuto quella spada dal padre di Matagorô come segno di amicizia e stima e, dal momento che sarebbe un insulto ricambiare con un dono in denaro, ha ritenuto bene restituire il favore con atti di gentilezza verso Matagorô. Credo che lui invece voglia del denaro».
Quando Kazuma ebbe terminato il servizio, tornò a casa e andò nella stanza del padre per riferirgli le voci che si stavano diffondendo a palazzo, e lo pregò di mandare a Matagorô un generoso dono in denaro. Yukiyé rifletté un po’ e disse:
«Sei troppo giovane per capire la giusta linea di condotta in circostanze del genere. Il padre di Matagorô e io eravamo amici molto intimi; quindi, considerando che mi aveva generosamente restituito la spada dei miei antenati, io, nell’intento di ricambiarne la gentilezza dopo la sua morte, ho reso importanti servizi a Matagorô. Sarebbe stato facile chiudere la faccenda mandandogli un dono in denaro, ma preferisco prendere la spada e restituirla piuttosto che essere in debito con quel volgare zotico, che non conosce le leggi che regolano i rapporti e le relazioni tra uomini di sangue nobile».
Così Yukiyé, furibondo, portò la spada a casa di Matagorô e gli disse:
«Sono venuto a casa tua questa sera all’unico scopo di restituirti la spada che tuo padre mi diede», e così dicendo posò la spada di fronte a Matagorô.
L’altro replicò:
«Spero che non ti causi dispiacere restituirmi il dono che mio padre ti fece».
«Tra uomini di nobili natali», disse Yukiyé con un riso sprezzante, «è usanza ricambiare i doni prima di tutto con la gentilezza, poi con un dono adeguato offerto con cuore sincero. Ma non è usanza parlare come te, che ignori i più elementari principi della buona educazione; quindi ho l’onore di restituirti la spada».
Dal momento che Yukiyé continuava a rimproverarlo aspramente, Matagorô s’infuriava sempre di più, ed essendo un poco di buono, avrebbe ucciso Yukiyé sul momento, ma questi, per quanto fosse vecchio, era un abile spadaccino, per cui Matagorô, pusillanime com’era, decise di aspettare fino a quando avrebbe potuto aggredirlo di sorpresa. Senza sospettare il minimo tradimento, Yukiyé si accinse a tornare a casa, e Matagorô, con il pretesto di accompagnarlo alla porta, si portò alle sue spalle con la spada sguainata e gliela conficcò tra le spalle. Il vecchio, girandosi, sguainò anch’egli la spada e si difese, ma essendo già stato gravemente ferito, svenne per la perdita di sangue, cosicché Matagorô lo uccise.
La madre di Matagorô, allarmata dal rumore, uscì e, quando vide quello che era accaduto, ne fu terrorizzata e disse:
«Che hai fatto, incosciente? Sei un assassino, e adesso la tua vita sarà perduta. Che azione terribile è questa!»
«Ormai l’ho ucciso, e non c’è più niente da fare. Vieni, madre, prima che la cosa sia scoperta, fuggiamo insieme da questa casa».
«Verrò in seguito. Tu vai a cercare il signore Abé Shirogorô, un capo degli Hatamoto (1) che è stato mio figlio adottivo. Corri da lui a chiedergli protezione e rimani nascosto».
Così la vecchia convinse il figlio a fuggire e lo mandò al palazzo di Shirogorô.
Ora accadde che in quel periodo gli Hatamoto si erano costituiti in una lega contro il potente Daimio, e Abé Shirogorô, insieme a due altri nobili di nome Kondô Noborinosuké e Midzuno Jiurozayémon, era a capo della lega. Ne seguiva, come naturale conseguenza, che il suo esercito era spesso reclutato tra uomini malvagi, che non avevano mezzi per guadagnarsi da vivere e che accoglieva volentieri senza fare domante sul loro passato; tanto più quindi offrì rifugio al figlio della madre adottiva, gli concesse la sua protezione e lo protesse da ogni pericolo. Indisse quindi una riunione dei principali Hatamoto e presentò loro Matagorô, dicendo:
«Quest’uomo è uno del seguito di Ikéda Kunaishôyu, che avendo un motivo per odiare un uomo di nome Watanabé Yukiyé, lo ha ucciso e si è rifugiato da me per chiedere protezione; la madre di quest’uomo mi ha allattato quando ero piccolo e, giusto o sbagliato che sia, lo aiuterò. Se dunque Ikéda Kunaishôyu mi mandasse a chiedere i consegnarlo, confido che tutti voi come un sol uomo userete la vostra forza per aiutarmi e per difenderlo».
«Certo! lo faremo con piacere!» rispose Kondô Noborinosuké. «Per tanto tempo abbiamo avuto motivo di lagnarci per il disprezzo con cui i Daimio ci hanno trattati. Che Ikéda Kunaishôyu provi a mandare qualcuno a reclamare quest’uomo e gli faremo vedere la potenza degli Hatamoto».
Tutti gli altri Hatamoto, di comune accordo, approvarono questa decisione e si prepararono a una resistenza armata, se il signore Kunaishôyu avesse mandato a esigere la resa di Matugorô. E così questi restò come gradito ospite nella casa di Shirogorô.
Intanto, a notte fonda, Yukiyé, il padre di Watanabé Kazuma non tornava ancora a casa, e questi, preoccupato, si recò alla casa di Matagorô a cercarlo e, scoperto con orrore che era stato assassinato, cadde sul suo cadavere e lo abbracciò piangendo. All’improvviso gli balenò la certezza che quella fosse indubbiamente opera di Matagorô, cosicché si precipitò con furia nella casa, deciso a uccidere all’istante l’assassino di suo padre. Ma Matagorô era già fuggito e trovò solo la madre, che si stava preparando a seguire il figlio alla casa di Abé Shirogorô: allora legò la vecchia e cercò il figlio per tutta la casa, ma, vedendo che la ricerca non dava risultati, prese la madre e la portò da uno degli anziani del clan, accusando nello stesso tempo Matagorô di aver ucciso suo padre. Quando il fatto fu riferito al principe, questi s’infuriò moltissimo e diede ordine che la vecchia rimanesse legata e fosse gettata in prigione fino a quando non si fosse scoperto dove fosse suo figlio. Poi Kazuma seppellì il cadavere del padre con grande fasto, e la vedova e l’orfano piansero la perdita.
Ben presto, fra la gente di Abé Shirogorô giunse la notizia che la madre di Matagorô era stata imprigionata per il crimine del figlio, e subito cominciarono a progettare la sua liberazione; così mandarono al palazzo del signore Kunaishôyu un messaggero che, non appena introdotto presso il consigliere del principe, disse:
«Abbiamo udito che, in seguito all’assassinio di Yukiyé, il mio signore ha voluto imprigionare la madre di Matagorô. Il nostro signore Shirogorô ha arrestato il criminale e ve lo consegnerà. Ma la madre non ha commesso crimini, per cui vi preghiamo che sia liberata da questa crudele prigionia: è stata la madre adottiva del nostro signore, ed egli desidera intercedere per salvarle la vita. Se voi acconsentirete a ciò, noi in cambio vi consegneremo l’assassino e lo faremo domani stesso di fronte al portone del nostro signore».
Il consigliere riferì il messaggio al principe che, felice di potersi vendicare di Kazuma l’indomani stesso, acconsentì immediatamente alla proposta; così il messaggero riferì trionfante che il piano aveva avuto successo. Il giorno seguente il principe diede ordine che la madre di Matagorô fosse fatta salire su una lettiga e trasportata all’abitazione di Hatamoto, dandone l’incarico a uno del seguito di nome Sasawo Danyémon che, non appena giunse alla porta della casa di Abé Shirogorô disse:
«Sono incaricato di consegnarti la madre di Matagorô e di ricevere in cambio suo figlio dalle tue mani».
«Te lo consegneremo immediatamente, ma, dal momento che madre e figlio stanno per darsi l’estremo addio, ti preghiamo di essere tanto cortese da attendere un po’».
Ciò detto, l’uomo di Shirogorô condusse la vecchia nella casa del padrone, e Sasawo Danyémon restò ad aspettare fuori, finché infine diventò impaziente e sollecitò la gente di casa.
«Ti ringraziamo moltissimo», risposero quelli, «per la tua gentilezza nel portarci la madre, ma poiché il figlio al momento non può venire con te, è meglio che te ne torni a casa il più in fretta possibile. Abbiamo paura di averti messo proprio in un grosso guaio», dicevano prendendolo in giro.
Quando Danyémon vide che non solo era stato imbrogliato nel consegnare la vecchia, ma che per giunta era anche diventato il loro zimbello, s’infuriò moltissimo e pensò di irrompere nella casa e portare via con la forza Matagorô e la madre; ma, gettando un’occhiata al cortile, vide che era pieno di Hatamoto armati e con le spade sguainate. Ritenendo inutile combattere una battaglia senza speranza e nello stesso tempo rendendosi conto che, dopo essere stato imbrogliato in quel modo, sarebbe stato disonorato agli occhi del suo signore, Sasawo Danyémon si recò presso il luogo di sepoltura dei suoi antenati e si uccise di fronte alle loro tombe.
Non appena il principe udì il trattamento che era stato riservato al suo messaggero, s’indignò e, convocati i consiglieri, decise, malgrado fosse malato, di radunare i suoi e attaccare Abé Shirogorô. Gli altri Daimio, quando la cosa fu pubblicamente risaputa, aderirono alla causa e decisero che gli Hatamoto dovevano essere puniti per la loro arroganza. Dal canto loro gli Hatamoto impiegarono ogni sforzo per resistere ai Daimio. E così Yedo entrò in agitazione e lo stato tumultuoso della città causò grande preoccupazione al governo, che tenne consiglio sul modo di riportare la calma. Dato che gli Hatamoto erano sotto il comando diretto dello Shogun, non era difficile distruggerli: il problema principale era piuttosto come metterli sotto il controllo dei grandi Daimio. Ciononostante, uno dei Gorôjin (2) di nome Matsudaira Idzu no Kami, un uomo di grande intelligenza, escogitò un piano che avrebbe potuto garantire il successo.
A quel tempo al servizio dello Shogun c’era un medico di nome Nakarai Tsusen, che frequentava abitualmente il palazzo del signore Kunaishôyu e che in passato lo aveva curato per un certo periodo per la malattia da cui era affetto. Idzu no Kami mandò a chiamare il medico in segreto e, convocatolo nella sua stanza privata, prese a conversare con lui; a un certo momento abbassò improvvisamente la voce e gli bisbigliò:
«Ascolta, Tsusen. Tu hai ricevuto dei grandi favori dallo Shogun. Al momento il governo è in gravi difficoltà: saresti disposto a spingere la tua lealtà fino a perdere la vita per aiutarlo?»
«Ah, mio signore, per generazioni i miei antenati hanno mantenuto le loro proprietà per grazia dello Shogun. Sono disposto a rinunciare alla vita questa sera stessa per il mio principe, come dovrebbe fare ogni suddito fedele».
«Bene, allora ti dirò come stanno le cose. I grandi Daimio e gli Hatamoto sono venuti in contrasto su questa faccenda di Matagorô, e in seguito si ha avuto l’impressione che intendessero combattersi. Il paese entrerà in agitazione e i contadini e la gente delle città soffriranno molto, se non riusciamo a soffocare il tumulto. Gli Hatamoto saranno sottomessi facilmente, ma non sarà un compito facile mettere pace fra i grandi Daimio. Se sei disposto a sacrificare la vita per realizzare un mio stratagemma, la pace sarà ristabilita nel paese, ma la tua lealtà sarà la tua morte».
«Sono pronto a sacrificare la mia vita in questa azione».
«Ecco il mio piano. Tu hai assistito il mio signore Kunaishôyu durante la sua malattia, domani dovrai andare a visitarlo e lo dovrai avvelenare. Se riusciamo a ucciderlo, i tumulti cesseranno. Questo è quanto ti chiedo di fare».
Tsusen acconsentì e il giorno seguente, quando si recò da Kunaishôyu, portò con sé dei farmaci avvelenati. Ne bevve lui stesso la metà, (3) così il principe abbassò la guardia e bevve il rimanente senza timore. Tsusen, vedendo questo, si affrettò fuori e, mentre era trasportato a casa nella sua lettiga cadde preda dell’agonia della morte, e morì vomitando sangue.
Il principe Kunaishôyu morì allo stesso modo tra grandi tormenti, e nella confusione di occuparsi della sua morte e di preparare le cerimonie funebri, l’imminente combattimento con gli Hatamoto fu rimandato.
Nel frattempo Gorôjiu Idzu no Kami convocò i tre capi degli Hatamoto e si rivolse loro in questi termini:
«I complotti segreti e la condotta traditrice e turbolenta di voi tre, del tutto disdicevole alla vostra posizione di Hatamoto, ha fatto infuriare il mio signore lo Shogun a un punto tale, che si è degnato di ordinare che siate imprigionati in un tempio e che i vostri beni siano consegnati ai vostri futuri eredi».
E così i tre Hatamoto, dopo essere stati severamente rimproverati, furono confinati in un tempio chiamato Kanyeiji, e gli altri Hatamoto, impauriti da questo esempio, si dispersero in pace. Così per i grandi Daimio, visto che dopo la morte del signore Kunaishôyu gli Hatamoto erano tutti dispersi, non erano rimasti più nemici da combattere, per cui l’agitazione si calmò e fu riportata la pace.
Fu così che Matagorô perse il suo protettore; quindi, presa con sé la madre, partì e si mise sotto la protezione di un vecchio di nome Sakurai Jiuzayémon. Questo vecchio era un celebre insegnante di esercizi con la lancia e godeva di ricchezze e onori; accolse Matagorô e, dopo aver arruolato trenta Rônin come scorta, tutta gente risoluta e bene addestrata nell’arte della guerra, fuggirono tutti insieme verso un luogo distante di nome Sagara.
Per tutto questo tempo Watanabé Kazuma aveva meditato sulla morte di suo padre e pensato a come avrebbe potuto vendicarsi dell’assassino; così, quando Kunaishôyu morì all’improvviso, si recò dal giovane principe suo successore, dal quale ottenne il permesso di assentarsi per andare a cercare il nemico del padre. Ora la sorella maggiore di Kazuma aveva sposato un uomo di nome Araki Matayémon, che a quel tempo era conosciuto come il primo spadaccino del Giappone. Quando Kazuma aveva sedici anni, questo Matayémon, considerando la sua stretta parentela come genero dell’assassino, decise di andare con il giovane, come guardia del corpo, e aiutarlo a trovare Matagorô, e due del seguito di Matayémon, di nome Ishidomé Busuké e Ikezoyé Magohachi, decisero, a costo di qualsiasi rischio, di seguire il loro padrone. Quest’ultimo, udite le loro intenzioni, li ringraziò, ma rifiutò l’offerta dicendo che stava per impegnarsi in una vendetta in cui la sua vita sarebbe stata in costante pericolo, e dal momento che sarebbe stato un dolore troppo grande per lui se uno di loro fosse stato ferito durante quel servizio, si sentiva in dovere di pregarli di rinunciare al loro proposito; ma essi risposero:
«Padrone, queste tue parole sono crudeli. In tutti questi anni non abbiamo ricevuto da te altro che cortesia e favori, e ora che sei impegnato nella ricerca di questo assassino, desideriamo seguirti e, se sarà necessario, sacrificare la vita al tuo servizio. Inoltre abbiamo udito che gli amici di questo Matagorô sono non meno di trentasei uomini, quindi, per quanto coraggiosamente tu possa combattere, sarai in pericolo a causa del numero superiore dei nemici. Tuttavia, se vuoi insistere nel rifiuto di portarci con te, abbiamo deciso che non ci rimane altro che ucciderci seduta stante».
Quando Matayémon e Kazuma udirono queste parole, si meravigliarono della fedeltà e del coraggio di quegli uomini e ne furono commossi. Allora Matayémon disse:
«La gentilezza di voi due coraggiosi giovani non ha pari. Ebbene in questo caso accetterò con gioia i vostri servigi».
Allora i due uomini, avendo ottenuto quanto desideravano, seguirono felici il loro padrone, e i quatto partirono insieme nel viaggio alla ricerca di Matagorô, ignorando completamente dove questi si trovasse.
Nel frattempo Matagorô era andato verso Osaka insieme al vecchio Sakurai Jiuzayémon e ai suoi trentasei Rônin. Ma, per quanto fossero numerosi, viaggiavano con grande segretezza. Questo dipendeva dal fatto che il fratello minore del vecchio, Sakurai Jinsuké, maestro di scherma di professione, una volta aveva sostenuto un duello con Matayémon, cognato di Kazuma, ed era stato vergognosamente sconfitto, cosicché il gruppo aveva molta paura di Matayémon e si rendeva conto che, avendo abbracciato la causa di Kazuma e facendogli da guardia del corpo, avrebbero potuto avere la peggio malgrado il loro numero: così procedevano sulla loro strada con grande cautela e, una volta giunti a Osaka, presero alloggio in una locanda in un quartiere chiamato Ikutama e si nascosero da Kazuma e Matayémon.
Anche questi ultimi arrivarono presto a Osaka e non risparmiarono gli sforzi per trovare Matagorô. Una sera verso il tramonto, mentre Matayémon stava passeggiando nel quartiere in cui abitava il suo nemico, vide un uomo, vestito come il servitore di un signore, entrare in una rosticceria e ordinare budino di grano per trentasei uomini, e osservando attentamente l’uomo, lo riconobbe come uno dei servitori di Sakurai Jiuzayémon; allora si nascose in un punto oscuro e attese, finché udì il ragazzo dire:
«Il mio padrone, Sakurai Jiuzayémon, partirà per Sagara domani mattina per rendere grazie agli dei per la guarigione dalla malattia che lo aveva colpito, quindi ho molta fretta».
Detto questo il servitore si affrettò ad andarsene, e Matayémon, entrando nel negozio, ordinò un po’ di budino, e mentre lo mangiava fece alcune domante sull’uomo che ne aveva appena ordinato una quantità così grande. Il padrone del negozio rispose che era al servizio di un gruppo di trentasei nobili signori che alloggiavano nella tal locanda. Allora Matayémon, avendo scoperto tutto quello che voleva sapere, tornò a casa e lo disse a Kazuma, che fu felice all’idea di potersi vendicare l’indomani. Quella stessa sera Matayémon mandò uno dei suoi due fidi a spiare nella locanda, per scoprire a che ora Matagorô si sarebbe messo in viaggio il mattino seguente. Questi venne a sapere dai servi della locanda che il gruppo sarebbe partito per Sagara allo spuntare del giorno, facendo tappa a Isé per pregare al tempio di Tershô Daijin.
Matayémon si preparò a sua volta e partì prima dell’alba con Kazuma e i suoi due uomini. Al di là di Uyéno, nella provincia di Iga, la cittadella del Daimio Tôdô Idzumi no Kami, c’è una landa vasta e solitaria, ed essi stabilirono che quello sarebbe stato il luogo in cui avrebbero attaccato il nemico. Quando arrivarono in quel luogo, Matayémon entrò in una casa da tè a lato della strada e scrisse una petizione al governatore della cittadella del Daimio, chiedendo il permesso di consumare la vendetta entro i suoi confini; poi si rivolse a Kazuma e disse:
«Quando incontreremo Matagorô e comincerà la battaglia, attacca e uccidi solo l’assassino di tuo padre, attacca lui e lui solo, mentre io terrò lontani i suoi Rônin». Poi, rivolgendosi ai suoi due uomini: «Quanto a voi, state vicini a Kazuma, e se i Rônin dovessero tentare di salvare Matagorô, il vostro compito sarà quello di evitarlo e di aiutare Kazuma». E dopo che i compiti di ciascuno degli uomini furono definiti fin nei minimi dettagli, rimasero in attesa dell’arrivo del nemico. Mentre si riposavano nella casa da tè, giunse il governatore della cittadella e, chiedendo di Matayémou, disse:
«Ho l’onore di essere il governatore della cittadella di Tôdô Idzumi no Kami. Il mio signore, appresa la tua intenzione di uccidere il tuo nemico entro i confini di questa città, dà il suo consenso, e come prova della sua ammirazione per la tua fedeltà e coraggio, ti ha anche mandato un reparto di fanteria forte di cento uomini, per sorvegliare il posto, cosicché se qualcuno dei trentasei uomini tentasse di fuggire, non dovrai preoccupartene, perché la fuga sarà impossibile».
Quando Matayémon e Kazurna ebbero espresso i loro ringraziamenti per la gentilezza di sua signoria, il governatore si congedò e fece ritorno a casa. Infine la colonna del nemico fu avvistata in lontananza. Per primo avanzava Sakurai Jiuzayémon e il fratello minore Jinsuké; dietro di loro seguivano Kawai Matagorô e Takénouchi Gentan. Questi quattro uomini, che erano i più valorosi e importanti del gruppo di Rônin, cavalcavano cavalli da soma, e gli altri avanzavano a piedi, a ranghi ben serrati.
Mentre si avvicinavano, Kazuma, che era impaziente di vendicare il padre, si fece audacemente avanti e gridò con voce stentorea:
«Qui ci sono io, Kazuma, il figlio di Yukiyé, che tu, Matagorô, hai ucciso a tradimento, deciso a vendicare la morte di mio padre. Fatti avanti, dunque, e combatti con me, e vediamo chi di noi due è il migliore».
E prima che i Rônin si fossero ripresi dallo stupore, Matayémon disse:
«Io, Araké Matayémon, genero di Yukiyé, sono venuto per aiutare Kazuma nella sua azione di vendetta. Vincitore o perdente, devi combattere con noi».
Quando i trentasei uomini udirono il nome di Matayémon, furono molto spaventati, ma Sakurai Jiuzayémon li esortò a mettersi in guardia e saltò giù da cavallo, mentre Matayémon, slanciandosi in avanti con la spada sguainata, lo squarciò dalla spalla al petto, facendolo cadere morto. Sakurai Jinsuké, vedendo il fratello ucciso davanti ai suoi occhi, montò su tutte le furie e scagliò una freccia verso Matayémon, che abilmente la tagliò in due con il pugnale mentre era ancora in volo; Jinsuké, sbalordito da questa prodezza, gettò via l’arco e attaccò Matayémon, che con la spada nella destra e il pugnale nella sinistra combatteva con disperazione. Gli altri Rônin tentarono di salvare Jinsuké, e nel combattimento Kazuma, che aveva attaccato Matagorô, rimase separato da Matayémon, i cui due uomini, Busuké and Magohachi, ricordando gli ordini del padrone, uccisero cinque Rônin che avevano attaccato Kazuma, ma furono a loro volta gravemente feriti. Nel frattempo Matayémon, che aveva ucciso sette dei Rônin e che, più duro si faceva l’attacco più valorosamente combatteva, ne uccise altri tre, e i superstiti non osarono più avvicinarsi a lui. In quel momento arrivò un certo Kanô Tozayémon, uno degli uomini del signore della cittadella e vecchio amico di Matayémon, che quando aveva udito che Matayémon quel giorno avrebbe vendicato il suocero, aveva afferrato la lancia e, in nome dell’amicizia tra loro, era andato ad aiutarlo e a combattere al suo fianco, e disse:
«Signore Matayémon, quando ho udito della rischiosa impresa che hai intrapreso, sono venuto a offrirti i miei servizi e combattere al tuo fianco».
Matayémon, udendo ciò, si rallegrò e combatté con rinnovata energia. Allora uno dei Rônin, di nome Takénouchi Gentan, uomo molto coraggioso, si staccò dai compagni per combattere con Matayémon e accorse al salvataggio di Matagorô, che era incalzato con veemenza da Kazuma, e Busuké, nel tentativo di ostacolarlo, cadde coperto di ferite. Il suo compagno Magohachi, vedendolo cadere, fu molto preoccupato, perché come si sarebbe giustificato con Matayémon se qualcosa di male fosse accaduto a Kazuma? Così, malgrado le ferite, attaccò anch’egli Takénouchi Gentan e, essendo indebolito dalle ferite ricevute, era in pericolo di morte. Allora l’uomo che era arrivato dalla cittadella per aiutare Matayémon gridò:
«Guarda là, signore Matayémon, quell’uomo del tuo seguito che sta combattendo con Gentan è in grave pericolo. Corri a salvarlo e aiuta Kazuma: penserò io agli altri!»
«Ti ringrazio. Andrò ad aiutare Kazuma».
Così Matayémon andò ad aiutare Kazuma, mentre il suo amico e i soldati di fanteria tenevano lontano i Rônin sopravvissuti che, già stanchi per il combattimento con Matayémon, non erano in grado di sostenere altri sforzi. Kazuma nel frattempo stava ancora combattendo con Matagorô, e l’esito della battaglia era incerto; Takénouchi Gentan, nel tentativo di salvare Matagorô, era tenuto a bada da Magohachi che, indebolito dalle ferite e accecato dal sangue che gli colava negli occhi da un taglio sulla fronte, si dava ormai per spacciato, quando arrivò Matayémon e gridò:
«Coraggio, Magohachi, sono io Matayémon, che sono arrivato per salvarti. Sei gravemente ferito, allontanati dal pericolo e riposati!»
Allora Magohachi, che fino a quel momento era stato sostenuto dalla preoccupazione per la sicurezza di Kazuma, cedette e cadde svenuto per la perdita di sangue; Matayémon ebbe la meglio su Gentan e lo uccise; e anche allora, malgrado avesse ricevuto due ferite, non cedeva ancora, ma si trascinò vicino a Kazuma e disse:
«Coraggio, Kazuma! I Rônin sono stati tutti uccisi, rimane solo Matagorô, l’assassino di tuo padre. Combatti e vinci!»
Il giovane, così incoraggiato, raddoppiò i suoi sforzi, ma Matagorô, ormai perso ogni coraggio, si arrese e cadde. Così fu compiuta la vendetta di Kazuma ed esaudito il desiderio del suo cuore.
I due uomini fedeli che erano morti per la loro lealtà furono seppelliti con grandi onori; Kazuma portò con sé la testa di Matagorô e la posò sulla tomba del padre.
Così termina il racconto della vendetta di Kazuma.
Note:
1 – La parola Hatamoto significa “sotto la bandiera“. Gli Hatamoto erano uomini che, come indica il loro nome, si raccoglievano intorno allo stendardo dello Shogun o Tycoon in tempo di guerra. Erano ottomila. Quando Iyéyasu lasciò la provincia di Mikawa e divenne Shogun, gli uomini al suo seguito che aveva reso nobili e che avevano ricevuto la concessione di terre che rendevano diecimila koku di riso all’anno erano chiamati Hatamoto. In cambio di queste assegnazioni di terra, gli Hatamoto in tempo di guerra dovevano fornire un contingente di soldati in proporzione alla loro rendita. Per ogni mille koku di riso erano richiesti cinque uomini. Gli Hatamoto la cui rendita era inferiore a mille koku mandavano in sostituzione una somma in denaro. In tempo di pace la maggior parte degli ufficiali inferiori del governo del Tycoon erano Hatamoto, mentre i posti più importanti erano coperti dai Fudai, ossia Daimio vassalli dello Shogun. Nel XVIII secolo, a imitazione delle usanze straniere, fu fondato un esercito permanente, per cui gli Hatamoto dovevano fornire la loro quota in uomini o in denaro al paese sia in tempo di pace che di guerra. Quando lo Shogun nel 1868 fu ridotto al rango di un semplice Daimio, le sue rendite di otto milioni di koku tornarono al governo, ad eccezione di settecentomila koku. Il titolo di Hatamoto non esiste più, e la maggior parte di coloro che detenevano questo rango andarono in rovina o furono dispersi. Alcuni di essi si dedicarono al commercio mettendo in vendita i cimeli di famiglia, altri andarono per il paese come Rônin; mentre una piccola minoranza poté seguire la fortuna in declino della famiglia del proprio padrone. Così gli ottomila furono dispersi.
2 – Il principale Consiglio dei ministri dello Shogun; letteralmente: “Assemblea di nobili imperiali”
3 – Un medico che aveva in cura un personaggio di grado elevato doveva sempre bere la metà del farmaco che prescriveva per dimostrare la propria buona fede.
Testo e illustrazioni in:
Baron Algernon Bertram Freeman-Mitford Redesdale, Tales of Old Japan, 1871
http://www.gutenberg.org/files/13015/13015-h/13015-h.htm