leggende Orientali – BAMBÙ E LA TARTARUGA

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Racconto popolare della Cina

Tradotta da Dario55

BAMBÙ E LA TARTARUGA

Un gruppo di dignitari era andato a visitare i monumenti a Hsi Ling. Avevano appena disceso il Sacro Cammino tra i giganteschi animali di pietra, quando Bambù, un ragazzino di dodici anni, figlio di un custode, corse fuori dalla casa paterna per veder passare i mandarini. Non aveva mai visto prima una simile sfilata di gente importante, nemmeno nei giorni di festa. C’erano dieci portantine, con portatori vestiti di colori sgargianti, dieci ombrelli rossi dai lunghi manici, ciascuno tenuto alto sulla fronte del suo altezzoso padrone, e una lunga fila di cavalieri.
Quando questo allegro corteo ebbe sfilato completamente, Bambù stava per mettersi a piangere, perché non poteva correre dietro ai visitatori, dato che questi passavano da un tempio all’altro e da una sepoltura all’altra. Ma, ahimè!, suo padre gli aveva ordinato di non seguire mai i visitatori.
«Se tu facessi una cosa simile, Bambù», gli diceva saggiamente, «ti scambierebbero per un mendicante, e se tu fossi un mendicante, lo sarebbe anche tuo padre. E quelli non vogliono mendicanti attorno alle sepolture reali».
E così Bambù non aveva mai conosciuto il piacere di seguire i ricchi. Tante volte era tornato verso la piccola casa di fango con il cuore spezzato nel vedere i suoi compagni di gioco correre pieni di allegria dietro le portantine di quegli uomini importanti.
Il giorno in cui ha inizio questa storia, poco dopo che l’ultimo cavaliere era sparito alla vista tra i cedri, a Bambù capitò di alzare lo sguardo verso una delle costruzioni più piccole del tempio di cui suo padre era custode. Era la costruzione attraverso la quale aveva appena visto passare i visitatori. Forse i suoi occhi lo stavano ingannando? No, nella fretta del momento si erano dimenticati delle grandi porte di ferro, che adesso erano spalancate, come se lo invitassero a entrare.
Pieno di eccitazione si precipitò verso il tempio. Quante volte aveva schiacciato la testa contro le sbarre e sbirciato nella sala oscura, desiderando e sperando che un giorno o l’altro vi sarebbe potuto entrare. E neppure una volta gli era stata concessa questa grazia. Quasi ogni giorno, fin dall’infanzia, aveva guardato la stele di pietra ricoperta di caratteri cinesi, che si ergeva al centro dell’alta sala e arrivava quasi fino al tetto. Ma con meraviglia ancora più grande i suoi occhi si erano deliziati alla vista della gigantesca tartaruga in basso, sul cui dorso appoggiava la stele. Molti pilastri del genere si possono ammirare in Cina, e molte tartarughe simili che pazientemente sostengono il loro peso di pietra, ma questa era l’unica che Bambù avesse visto. Non si era mai allontanato dalla foresta di Hsi Ling e, naturalmente, conosceva molto poco del grande mondo al di là di essa.
Non c’è da stupirsi quindi che la tartaruga e il pilastro lo avessero sempre meravigliato. Aveva chiesto al padre di spiegargli il mistero.
«Perché i templi hanno una tartaruga? Perché non un leone o un elefante?»
Infatti aveva visto riproduzioni di pietra di questi animali nel parco e aveva pensato che sarebbero stati molto più adatti della sua amica, la tartaruga, a sostenere pesi sul dorso.
«Perché questa è l’usanza», aveva risposto suo padre con la risposta che dava a Bambù ogni volta che gli faceva una domanda. «Questa è l’usanza».
Il ragazzo aveva provato a pensarci da solo, ma non era mai stato abbastanza sicuro di aver trovato la risposta giusta, e ora, con sua grande gioia, stava per entrare proprio nella sala della tartaruga. Era sicuro che, una volta dentro, avrebbe trovato una risposta a questo enigma della sua infanzia.
Trattenendo il fiato, si precipitò attraverso l’entrata, nel timore che da un momento all’altro qualcuno si sarebbe accorto dei cancelli aperti e li avrebbe chiusi prima che potesse entrare. Proprio di fronte alla gigantesca tartaruga inciampò su un mucchietto di qualcosa sul pavimento, che era coperto da alcuni centimetri di polvere. Aveva il viso rigato, e i vestiti erano uno spettacolo, ma a Bambù non importava niente di queste sciocchezze. Stette fermo qualche istante, senza avere il coraggio di muoversi. Poi, udendo un rumore all’esterno, strisciò sotto il mostruoso animale di pietra e si rannicchiò in quello stretto nascondiglio, silenzioso come un topolino.
«Ehi tu!» disse una voce profonda. «Guarda cosa stai combinando muovendo tutta questa polvere! Mi farai soffocare, se non stai attento».
Era la tartaruga che stava parlando, malgrado il padre di Bambù gli avesse detto tante volte che non era viva. Il bambino rimase fermo tremante per un minuto, troppo terrorizzato per alzarsi e fuggire.
«Non tremare così, ragazzo mio», continuò la voce con un tono un po’ più gentile. «Penso che tutti i ragazzi siano uguali, buoni a nulla se non a sollevare la polvere a calci».
Concluse il suo giudizio con una risatina rauca, e il ragazzo, vedendo che stava ridendo, osservò con meraviglia quella strana creatura.
«Non pensavo di far male venendo qui», disse infine. «Volevo solo vederti meglio».
«Oh, davvero? Beh, questo è curioso. Tutti gli altri vengono qui e guardano la stele sul mio dorso. A volte leggono ad alta voce le assurdità che ci sono scritte sugli imperatori morti e i loro appellativi, ma fanno ben poco caso a me, a me il cui padre era uno dei quattro grandi che crearono il mondo».
Gli occhi di bambù brillarono di meraviglia.
«Cosa!» esclamò rimanendo a bocca aperta «Tuo padre ha partecipato alla creazione del mondo?»
«Beh, non precisamente mio padre, ma uno dei miei antenati, il che è lo stesso, non credi? Ma, ascolta! Sento una voce. Il custode sta tornando. Alzati e corri a chiudere quei cancelli, in modo che non si accorga che sono stati dimenticati aperti. Poi puoi andare a nasconderti in un angolo fino a quando se ne sarà andato. Devo raccontarti ancora qualcos’altro».
Bambù fece come gli aveva detto. Ci vollero tutte le sue forze per far girare al loro posto i pesanti cancelli. Lo faceva sentire importante il pensiero che stava facendo qualcosa per il discendente di uno dei creatori del mondo, e gli avrebbe spezzato il cuore se quella visita fosse terminata poco dopo essere incominciata.
Suo padre e gli altri custodi passarono oltre, senza neppure sognarsi che le pesanti serrature non fossero chiuse come al solito. Stavano discorrendo della grande personalità che era appena passata. Avevano un aspetto molto soddisfatto e facevano tintinnare in mano alcune monete.
«Allora, ragazzo mio», disse la tartaruga di pietra quando il suono delle voci si fu spento in lontananza e Bambù era uscito dall’angolo, «forse pensi che io sia orgogliosa del mio lavoro. Ebbene, me ne sto qui da un centinaio di anni a reggere questa trave, proprio io che amo tanto viaggiare. Per tutto questo tempo, giorno e notte, ho cercato di pensare a un modo per lasciare il mio posto. Forse sarà onorevole, ma, come puoi ben immaginare, non è certo piacevole».
«Posso immaginare che tu abbia mal di schiena», azzardò Bambù timidamente.
«Mal di schiena! Altroché! Schiena, collo, gambe, occhi, tutto mi fa soffrire, mi fa soffrire il pensiero della libertà. Ma, capisci, anche se mi mettessi a scalciare e rovesciassi a terra questo monumento, non avrei modo di attraversare quelle barriere di ferro», e accennò verso il portone.
«Sì, capisco», convenne Bambù, cominciando a provare compassione per la sua amica.
«Ma ora che tu sei qui, ho un piano, anzi un buon piano, credo. I custodi si sono dimenticati di sbarrare il portone. Cosa può impedirmi di guadagnare la libertà questa sera stessa? Tu apri il cancello, io esco, e nessuno se ne accorgerebbe».
«Ma mio padre impazzirà, se si accorgerà di aver mancato al suo dovere e che tu sei fuggita».
«No, assolutamente no. Tu stasera puoi sfilargli le chiavi, sbarrare il portone appena me ne sarò andata, e nessuno saprà cosa è successo. Anzi, la cosa renderà celebre questo edificio e non farà del male a tuo padre, gli farà del bene. Moltissimi viaggiatori vorranno vedere il luogo da cui sono scomparsa. Sono troppo pesante perché un ladro possa portarmi via, e quindi saranno convinti che si tratti di un prodigio degli dei. E io mi divertirò moltissimo fuori, nel grande mondo».
Proprio in quel momento Bambù si mise a piangere.
«Sciocchino, che c’è da piangere?» disse la tartaruga con un sorriso. «C’è qualcosa di cui piangere, bimbo?»
«No, ma non voglio che te ne vada».
«Non vuoi che me ne vada, eh? Proprio come tutti gli altri. Bell’amico che sei! Quale motivo hai per desiderare di vedermi qui per tutto il resto della mia vita, con una montagna che mi pesa sulla schiena? Credevo che tu fossi triste per me, e invece si scopre che sei come tutti gli altri».
«È tutto così solitario qui, e non ho compagni di gioco. Tu sei l’unico amico che ho».
La tartaruga rise forte.
«Ha ha ha! E così piangi perché pensi che io sia un buon compagno di giochi. Allora, se questo è il motivo, le cose cambiano completamente. Che ne dici di venire con me? Anch’io ho bisogno di un amico, e se tu mi aiuti a fuggire, è perché mi sei veramente amico«.
«Ma come riuscirai a scrollarti la stele dalla schiena?» domandò dubbioso Bambù. «È molto pesante».
«Questo è facile, basta uscire dalla porta. La stele è troppo alta per attraversarla. Scivolerà giù e si appoggerà sul pavimento, anziché sul mio guscio».
Bambù, pazzo di gioia al pensiero di fare un viaggio con la tartaruga, promise che avrebbe obbedito agli altri ordini. Dopo cena, mentre tutti erano addormentati nella casetta del custode, scivolò fuori dal letto, staccò la pesante chiave dal suo piolo e corse a perdifiato al tempio.
«Bene, allora non ti sei dimenticato di me», disse la tartaruga quando Bambù fece girare sui cardini i cancelli di ferro e li aprì.
«Oh no, non romperei mai una promessa. Sei pronta?»
«Sì, abbastanza pronta».
Così dicendo, la tartaruga mosse un passo. La stele oscillò all’indietro, ma non cadde. La tartaruga procedette fino a quando la sua testa gigantesca attraversò la soglia.
«Oh, che aspetto meraviglioso ha il mondo esterno», disse. «Che sensazione piacevole ti dà l’aria libera! Quella che sorge sulle colline è la luna? È la prima volta che la vedo da un sacco di tempo. E guarda gli alberi! Come sono cresciuti da quando mi hanno piazzato quella specie di lapide sulla schiena! C’è una vera foresta adesso qui fuori».
Bambù era entusiasta nel vedere quanto la tartaruga era felice per la sua fuga.
«Fai attenzione» gridò. «che il pilastro non si rompa cadendo!».
Aveva appena finito di dirlo, che il goffo animale attraversò la soglia ondeggiando. L’estremità superiore del monumento urtò contro il muro, vacillò e cadde sul pavimento con grande fragore. Bambù rabbrividì per la paura. E se suo padre fosse corso lì e avesse scoperto l’accaduto?
«Non aver paura, ragazzo. A quest’ora della notte non arriverà nessuno».
Bambù chiuse velocemente i battenti, tornò di corsa a casa e riappese la chiave al piolo. Gettò un lungo sguardo sui genitori addormentati, poi tornò dal suo amico. Dopotutto, non sarebbe stato via molto, e suo padre lo avrebbe certamente perdonato.
Poco dopo i due compagni stavano procedendo lungo la larga strada, molto lentamente, perché le tartarughe non sono certo veloci, e le gambe di Bambù erano ancora piuttosto corte.
«Dove stai andando?» chiese infine il ragazzo, dopo aver cominciato a sentirsi più in confidenza con la tartaruga.
«Dove sto andando? Dove pensi che voglia andare dopo un secolo di prigionia? Torno alla prima residenza di mio padre, torno all’autentico luogo in cui il grande dio, P’anku, insieme ai suoi tre aiutanti, modellò il mondo».
«Ed è lontano?» chiese esitante il ragazzo, che cominciava a sentirsi un po’ stanco.
«A questa velocità, sì, ma non penserai mica che faremo tutto il viaggio a questo passo da lumaca, spero. Saltami sulla schiena, e ti farò vedere io come si viaggia. Prima che faccia giorno saremo arrivati al termine del mondo, o meglio, all’inizio».
«Dove si trova l’inizio del mondo?» chiese Bambù. «Non ho mai studiato geografia».
«Dobbiamo attraversare la Cina, poi il Tibet e infine, sulle montagne subito al di là, raggiungeremo il luogo che P’anku scelse come centro della sua opera».
In quel momento Bambù si accorse che si stavano sollevando da terra. Sulle prime pensò che sarebbe scivolato giù dal guscio rotondo della tartaruga e gridò di paura.
«Non temere», disse la sua amica. «Basta che te ne stai seduto tranquillo e vedrai che non correrai alcun pericolo».
Ora si erano sollevati in aria, e Bambù poteva guardare in basso verso la grande foresta di Hsi Ling tutta immersa nella luce lunare. C’erano le larghe strade bianche che conducevano ai sepolcri reali, i bei templi, gli edifici in cui buoi e pecore erano preparati per i sacrifici, le torri svettanti e le colline coperte di alberi secolari sotto i quali erano sepolti gli imperatori. Fino a quella notte Bambù non si era reso conto di quanto fosse grande quel cimitero imperiale. Forse la tartaruga aveva intenzione di portarlo al di là della foresta? Nel tempo in cui si poneva questa domanda, avevano raggiunto una montagna, e la tartaruga stava salendo più in alto, sempre più in alto, per oltrepassare quell’imponente muro di roccia.
A Bambù vennero le vertigini, quando la tartaruga si spinse ancora più in alto nel cielo. Si sentiva come gli era accaduto qualche volta, quando faceva con i suoi amici quei giochi in cui ci si gira rapidamente in tondo e provava un tale senso di vertigine che ruzzolava a terra. Ma questa volta si rendeva conto che doveva tenere la testa a posto e non cadere, visto che volavano ad almeno un miglio di altezza da terra. Alla fine avevano oltrepassato la montagna e stavano volando sopra una grande pianura. Lontano sotto di lui Bambù poteva vedere villaggi addormentati e piccoli corsi d’acqua che brillavano come argento alla luce della luna. Poi, direttamente sotto di loro, apparve una città. Nelle vie oscure e strette si poteva scorgere qualche debole luce, e Bambù poteva udire i richiami di venditori che offrivano le loro merci di mezzanotte.
«Questa proprio sotto di noi è la capitale di Shan-shi», disse la tartaruga rompendo il suo lungo silenzio. «Si trova a quasi duecento miglia di distanza dalla casa di tuo padre, e le abbiamo percorse in meno di mezz’ora. Al di là di essa si trova la provincia delle Valli Occidentali. Tra un’ora saremo sopra il Tibet».
Ciò detto, schizzò alla velocità di un fulmine. Se non fosse stata piena estate, Bambù sarebbe rimasto pressoché congelato. Mani e piedi erano freddi e irrigiditi. La tartaruga, come se si fosse accorta di quanto era infreddolito, volò vicino a terra, dove era un po’ più caldo. Che sollievo per Bambù! Era così stanco che non riusciva più a tenere gli occhi aperti e stava per spiccare il volo verso il mondo dei sogni.
Quando si svegliò, era mattina. Era disteso al suolo in una regione selvaggia e rocciosa. Non molto distante ardeva un grande fuoco di legna, e la tartaruga stava cercando qualcosa da mettere a cuocere in una pentola.
«Ehi, ragazzo mio, finalmente ti sei svegliato dopo quella lunga cavalcata. Come vedi è ancora presto. È inutile che il drago creda di poter volare più veloce, io lo batto, non credi? La fenice può anche ridere di me e dire che sono lenta, ma la fenice non è ancora arrivata. Non c’è dubbio, ho battuto il record di velocità, e avevo anche un carico da trasportare che gli altri non hanno, di questo sono sicura».
«Dove siamo?» chiese Bambù.
«Nella terra del principio», rispose lei con saggezza. «Abbiamo volato sopra il Tibet, poi abbiamo viaggiato verso nordovest per due ore. Se non hai studiato geografia, non conosci il nome del paese. Ma siamo qui, e questo basta. E oggi è la festa annuale in onore del creatore del mondo. È stata una vera fortuna per me che ieri il cancello sia stato dimenticato aperto. Temo che i miei vecchi amici, il drago e la fenice, abbiano dimenticato che aspetto ho. È tanto tempo che non mi vedono. Quelli sono animali fortunati, a loro non caricano sulla schiena la stele degli imperatori. Ehilà! Ho sentito il drago che sta arrivando, se non mi sono sbagliato. Sì, eccolo. Come sono contento di vederlo!».
Bambù udì un grande frastuono, simile al turbinio di enormi ali, poi, guardando in alto, vide un gigantesco drago proprio di fronte a lui. Riconobbe che era un drago dai dipinti che aveva visto e dai bassorilievi dei templi.
Il drago e la tartaruga si erano appena salutati, entrambi felicissimi dell’incontro, che furono raggiunti da un uccello dall’aspetto strano, diverso da tutti quelli che Bambù aveva visto fino a quel momento, ma che riconobbe essere la fenice. La fenice somigliava un po’ a un cigno, ma aveva il becco di un gallo, il collo di un serpente, la coda di un pesce e le striature di un drago. Le penne erano di cinque colori.
Dopo che i tre amici ebbero chiacchierato allegramente per qualche minuto, la tartaruga disse loro che Bambù l’aveva aiutata a fuggire dal tempio.
«Un ragazzo sveglio», disse il drago, dando una leggera pacca sulla spalla di Bambù.
«Sì, davvero un ragazzo sveglio», fece eco la fenice.
«Ah», sospirò la tartaruga, «se solo il buon dio P’anku fosse qui, saremmo veramente felici! Ma ho paura che non arriverà mai a questo punto d’incontro. Sicuramente si trova in un luogo distante a modellare un altro mondo. Se solo potessi rivederlo almeno una volta, sarei sicura di poter morire in pace».
«Ma senti questa!» rise il drago. «Come se uno di noi potesse morire! Parli come un comune mortale».
Per tutto il giorno i tre amici chiacchierarono, fecero festa e si divertirono a visitare i luoghi in cui avevano vissuto felici quando P’anku stava modellando il mondo. Furono anche gentili con Bambù e gli mostrarono tante cose meravigliose che non aveva mai neppure sognato.
«Non hai neanche un poco l’espressione truce e la ferocia con cui ti dipingono sulle bandiere», disse Bambù al drago con voce amichevole quando stavano per salutarsi.
I tra amici risero di cuore.
«Oh no», scherzò la fenice. «È proprio un gran bravo ragazzo, anche se è coperto di squame di pesce».
Poco prima che si dicessero addio, la fenice diede a Bambù per ricordo una lunga penna scarlatta della sua coda, e il drago gli diede una grande scaglia che si trasformò in oro non appena il ragazzo la prese in mano.
«Vieni, vieni, dobbiamo affrettarci», disse la tartaruga. «Temo che tuo padre pensi che ti sei perso».
E Bambù, dopo aver trascorso il giorno più felice della sua vita, risalì sul dorso della tartaruga, e i due si alzarono nuovamente al di sopra delle nuvole. Il volo di ritorno fu ancora più veloce dell’andata. Bambù aveva tante di quelle cose da raccontare su quello che aveva fatto, che non pensava neppure di dormire, perché aveva visto davvero il drago e la fenice, e anche se non avesse visto nient’altro in vita sua, sarebbe stato sempre felice.
La tartaruga si fermò di colpo nel suo rapido volo, e Bambù si accorse che stava scivolando. Troppo tardi gridò aiuto, troppo tardi tentò di salvarsi. Giù, sempre più giù, cadde da quell’altezza vertiginosa, girando, ruotando, pensando all’orribile morte che stava certamente arrivando. Urtò contro le cime degli alberi, tentando invano di afferrare qualche ramo. Poi, con un alto grido, colpì il terreno, e il suo lungo viaggio ebbe fine.
«Ahimè», sospirò la tartaruga, «se almeno il buon dio P’anku fosse qui».
«Esci subito da sotto quella tartaruga, ragazzo! Che stai facendo nel tempio sdraiato nella sporcizia? Questo non è un posto adatto a te, non lo sai?»
Bambù si sfregò gli occhi. Anche se era ancora mezzo addormentato, riconobbe la voce di suo padre.
«Non uccidermi, ti prego», disse mentre suo padre lo spingeva fuori a calci da sotto la grande tartaruga di pietra.
«Ma chi ti uccide, razza di sciocco? Di che stai parlando? Ma stai sicuro che le prendi, se non ti sbrighi a uscire di lì e a venire a cena. A dire il vero credo che tu stia diventando troppo pigro per mangiare. Che idea dormire tutto il pomeriggio sotto la pancia di questa tartaruga!»
Bambù, non ancora del tutto sveglio, uscì incespicando dalla sala del pilastro, dopodiché suo padre sbarrò i grandi cancelli di ferro.

Testo originale in:
http://worldoftales.com/Asian_folktales/Chinese_Folktale_6.html

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